Il neopresidente della Liberia è criticato da molti media che gli danno del burattino impreparato che non sa parlare inglese. Le sue proposte politiche sono banali ma le parole di The Donald non sono tanto lontane da quelle di King George
di Francesco Cancellato (linkiesta.it, 13 ottobre 2017)
Marcare stretto George Weah è un lavoro piuttosto complesso. Lo era quando faceva il calciatore, e i difensori italiani lo sanno bene. Lo è ora che di mestiere fa il politico e, più precisamente, il favorito delle elezioni presidenziali della Liberia.In questo caso, a farne le spese sono uno sfortunato funzionario del Parlamento Europeo, chiamato al compito improbo di guidarlo tra un incontro e l’altro. E due marcantoni alti e grossi come lui, solo una decina abbondante d’anni più giovani, che lo tallonano come fossero Baresi e Maldini: «Sono i suoi advisor – spiega il funzionario –, gente che viene da Harvard, con ogni probabilità». Traduzione dell’intervistatore: loro sono la mente, Weah è la faccia da copertina. Sono i primi giorni di ottobre, ne mancano una decina alle elezioni, e Weah è a Bruxelles per incontrare le istituzioni europee, tra cui pure gli italiani Antonio Tajani e Gianni Pittella, rispettivamente presidente del Parlamento Europeo e capogruppo dei Socialisti & Democratici europei: «Queste elezioni rivestono un’importanza cruciale per consolidare il processo democratico avviato più di un decennio fa dopo guerre civili sanguinose e per la stabilità del Paese e della regione. Il caos elettorale che si sta verificando in Kenya non può e non deve riprodursi in Liberia. Tutti i candidati alle presidenziali liberiane dovranno dimostrare un grande senso di responsabilità politica», ha dichiarato proprio Pittella a margine di quell’incontro. E caso vuole che in concomitanza stiano avendo luogo gli incontri dell’Africa Week, promossa dagli stessi S&D. Mentre Weah ci viene incontro, nell’emiciclo stanno parlando due donne sindaco, che vengono dal Kenya e dal Ghana, emblema di un empowerment politico che nasce dal basso, dalle comunità come palestra di innovazione politica e sociale. La candidatura di King George, invece, cade dall’alto della sua celebrità, della sua esperienza internazionale, del suo status di cittadino americano, qualcuno sussurra pure dall’endorsement dell’ex signore della guerra Charles Taylor, in galera a Londra, visto che la vicepresidente designata dall’ex calciatore di Paris Saint Germain, Milan, Monaco e Chelsea è la sua ex moglie Jewel Howard. La stampa locale – e pure quella britannica – non è tenera con Weah. Una breve rassegna stampa su Google, in attesa del palesarsi dell’ex pallone d’oro, offre tutto il campionario delle accuse a suo carico: c’è chi dice che è il burattino di Taylor, c’è chi lo chiama “ex signore della guerra” direttamente, c’è chi dice che è totalmente impreparato al compito, in contrapposizione con la presidentessa uscente Ellen Jonhson Sirleaf, già funzionaria della World Bank, la prima donna a guidare un Paese africano battendo nel 2005 proprio Weah, che oggi sostiene, c’è chi dice a malincuore, uno dei suoi sfidanti. C’è chi dice che Weah non è mai in Liberia, che passa il suo tempo tra New York e Miami e che così continuerà a fare. E chi critica, infine, il suo pessimo inglese, nonostante, per l’appunto, Weah viva buona parte delle sue giornate tra New York e Miami, a riprova della sua ignoranza. Quest’ultima rimostranza trova conferma: l’inglese di Weah è perfettibile, la sua prosa è fatta di brevi slogan che si affastellano l’uno sull’altro senza apparenti legami tra loro, la sua proposta politica, a un primo ascolto, è una serie di banalità che chiunque di noi decidesse di interpretare la parte del candidato presidente di un Paese africano si troverebbe a ripetere: «Quando qualcuno mi chiede perché un ex calciatore può fare il presidente io gli rispondo “perché no?” – esordisce –. Io giocavo a calcio per essere uno strumento di trasformazione. Volevo fare politica per salvare la mia gente, per salvare il mio Paese». C’è da dire che l’ormai fresco vincitore delle elezioni appare molto provato dagli appuntamenti che si susseguono sin dalla mattina. Al netto delle attenuanti, tuttavia, strappargli un’agenda politica con qualche margine di originalità – e che non appaia velleitaria anche agli occhi dell’uomo più ingenuo del mondo – è impresa quasi impossibile: «Voglio un’amministrazione pubblica di livello uguale a quelle degli altri Paesi, voglio ospedali migliori perché è diritto di ogni cittadino essere curato da ospedali gratuiti. Oggi in Liberia se non hai soldi muori. Io sono stato in Europa, so cosa vuol dire la sanità per tutti». E ancora: «Voglio scuole migliori. Le scuole danno opportunità ai giovani, ai bambini. I bambini della Liberia non devono solo sognare di essere avvocati. Devono poterlo diventare». Tutto giusto, per carità. Termini di paragone? Montecarlo, Milano, Parigi, Londra, New York e Miami, le città in cui Weah ha vissuto e ha visto «Tante cose che si possono migliorare per rendere il nostro Paese migliore». Però. È sulle migrazioni che la cosa si fa interessante, perché Weah, con estremo candore e altrettanta schiettezza, rivela un tratto dell’opinione pubblica mai abbastanza indagato in Occidente: che i governi locali sostengono le scelte migratorie dei loro concittadini. Sia da un punto di vista umanitario, sia – ma qui siamo maliziosi noi: Weah è un politico, non un missionario – in funzione delle rimesse che spediscono a casa, unico vero, grande trasferimento monetario che avviene dall’Europa all’Africa: «Gli europei dovrebbero aiutarli, non cacciarli. Non importa la guerra: se muori di economia non sei un profugo, ma sei comunque una persona da aiutare», spiega. «Lo stesso faremmo noi se ci fosse una guerra in Europa», aggiunge. Mentre Weah parla viene spontaneo sorridere di fronte all’ingenuità dei liberiani, all’insipienza politica di un territorio abituato ad avere a che fare coi signori della guerra più che con elezioni e candidati da reality show. Poi però pensi a Berlusconi e a Trump, o ancora meglio alle paventate prossime candidature di Kanye West e Mark Zuckerberg e l’Occidente sembra quasi sovrapponibile a una delle più giovani democrazie africane. E le parole di The Donald non sono tanto lontane, a ben vedere, da quelle di King George. A proposito, e di Trump che dice signor Weah? E che ne pensa della protesta degli atleti afroamericani contro di lui? «Tempo scaduto», ci interrompono gli advisor che fino a quel momento, seduti sui divanetti di fronte, avevano smanettato distratti sui loro smartphone. Ecco a cosa servivano. Buon lavoro, (quasi) Presidente Weah. E buona fortuna, Liberia. Ne avrai bisogno.