“Via col vento” da 85 anni è uno scomodo mito cinematografico

Metro-Goldwyn-Mayer

di Giulio Zoppello (wired.it, 15 dicembre 2024)

Via col vento (Gone with the Wind) ha pochi film che possano contrastarne lo status di opera cinematografica controversa per eccellenza. Eppure, la sua ambiguità è pari esclusivamente dalla sua bellezza, alla sua potenza, alla sua capacità di rappresentare un’epoca cinematografica, con tutti i suoi pro e i suoi contro. A ottantacinque anni esatti dall’uscita in sala rimane un film divisivo, affascinante, ambiguo e proprio per questo importantissimo.

Quando Via col vento viene mostrato in anteprima al Grand Theater di Atlanta, quel 15 dicembre 1939, c’è un milione di persone in città per il film più chiacchierato, discusso e costoso che si fosse mai visto. La città smette di vivere per quattro giorni, è un circo impazzito a causa di quel colossal dalla genesi difficilissima, complicata al punto da chiedersi come sia possibile, a ottantacinque anni di distanza, che sia diventato un successo immortale, senza pari.

Il romanzo originale di Margaret Mitchell era stato un caso editoriale, un best seller venduto ovunque, ma poteva il cinema replicare tanta fortuna? Il produttore David O. Selznick era sicuro di sì; nel bene e nel male, più che di Victor Fleming (cui dobbiamo Il Mago di Oz, tra le altre cose), Via col vento è sempre stato una creatura sua, di questo individuo dispotico, perfezionista, intrattabile e che rese la lavorazione un vero e proprio inferno per troupe, cast, sceneggiatori. Il regista doveva essere George Cukor, per oltre un anno lavorò alla pre-produzione con Selznick, per licenziarsi adirato dopo tre settimane di riprese.

Selznick cacciava e assumeva membri dello staff e della troupe alla velocità della luce, non era sicuro di nulla e contemporaneamente assillava chiunque con il suo perfezionismo. Solo la sceneggiatura infine lo convinse, ma solo perché, a parte lui e Sidney Howard, vi erano stati coinvolti per mesi anche Scott Fitzgerald e Ben Hecht tra gli altri. Poi c’era stato da scegliere il cast. Selznick voleva Erroll Flynn e Bette Davis, ma i due divi si odiavano. Gary Cooper passò alla storia come un Piero Fassino d’antan rinunciando al ruolo di Rhett Butler, asserendo che Via col vento sarebbe stato “il più grande flop della storia”. Il tutto a beneficio di Clark Gable, coperto d’oro per l’occasione.

Nessun problema per Leslie Howard. Olivia de Havilland dovette invece fare carte false per sfuggire ai vincoli del suo contratto con la Warner. Per Vivien Leigh il ruolo di Rossella O’Hara arrivò perché conosceva il fratello di Selznick, ma erano ben altri i nomi che giravano per il ruolo della protagonista: la Metro-Goldwyn-Mayer cercava una vera diva. Eppure la spuntò lei, che ancora non era una diva e che da allora è un volto iconico della storia del cinema per quel film rischiosissimo, un evento mediatico che impattò la società americana su quel finire degli anni Trenta come nessuno avrebbe potuto immaginare.

Parlare di Via col vento significa confrontarsi con un film capace di rappresentare in tutto e per tutto quella divisione intima, irrinunciabile e mai doma dell’America tra Nord e Sud. La trama ruota attorno a una piantagione in Georgia, Tara, dove Rossella vive con la sua famiglia. Sogna l’amore per il bello ed elegante Ashley, ma lo questi la friendzona gentilmente per la tenera cugina Melania. In agguato, pronto a colpire, c’è l’irriverente, salace e grintoso Rhett Butler. Ma la Guerra Civile travolgerà tutto e tutti. Per Rossella la guerra significherà la perdita dell’innocenza, di un paradiso fatto di galanteria, buone maniere, balli, giochi. Quel mondo dorato la fotografia di Ernest Haller lo amplifica fino a farci arrivare il Sud ribelle come esso stesso si immaginava: la culla di un’aristocrazia raffinata.

Via col vento, del resto, fin dall’inizio della sua produzione, era avvertito come la personificazione dello spirito di revanche sudista poi ripreso in toto da quella destra che ancora oggi è seguita da una bella fetta d’America. Ma Rossella, Melania, conosceranno invece lutti, fame, disperazione, violenza e l’orrore di una guerra che come tutte le guerre sarebbe dovuta durare poche settimane. Invece sarà il primo conflitto armato moderno della Storia, e Via col vento lo fa capire bene. Il suo esito, di fatto, verrà deciso non da ideali e valore, ma dall’apparato industriale, dalle risorse materiali.

Via col vento è un caleidoscopio di momenti cinematografici incredibili, immagini portentose, sovente brutali, grandi scene di massa e intimità assoluta, tutti concepiti come dipinti in movimento di estatica bellezza. Su tutti, rimane impresso il giuramento fatto da Rossella a sé stessa al culmine della disperazione, della fame. Ma i dialoghi, i dialoghi di questo film sono perfezione assoluta, sono portatori di significato e di un percorso di evoluzione costante che lo rendono ancora oggi un modello.

Via col vento nel corso dei decenni verrà ovviamente attaccato, oggi è di base finito all’indice o quasi. Sul banco degli imputati, oltre alla simpatia per il Sud schiavista, la stereotipata e mortificante rappresentazione degli afroamericani, descritti come inintelligenti, felici delle loro catene, ridicoli e privi d’identità. Paradossalmente il film porterà il primo Oscar a un’artista afroamericana: Hattie McDaniel, per Mami, un personaggio meraviglioso e complesso al di là della rappresentazione un po’ forzata. Era grande amica di Clark Gable la McDaniel, ma non potrà assistere all’anteprima di Atlanta: la segregazione razziale delle Jim Crow Laws non ammetteva eccezioni.

Fantasia e verità, passato e presente, alto e basso, Via col vento da ottantacinque anni contiene tutto questo. Ambiguità, appunto. Certo, la schiavitù che ci mostra il film è come l’immaginavano i filo-sudisti, in quegli Stati che su di essa avevano creato il proprio benessere. Poi ci sono i cosiddetti carpetbaggers, imprenditori (tra cui schiavi liberati) che creano la nuova classe imprenditoriale in un Sud distrutto, descritti qui come una pestilenza. L’autrice, Margaret Mitchell, era di Atlanta, in Georgia, e il suo romanzo rifletteva una memoria storica di parte.

Ma la Mitchell era anche una convintissima femminista, e infatti Via col vento ci regalò anche uno dei più rivoluzionari personaggi femminili di ogni tempo. Rossella O’Hara è protagonista di un percorso di emancipazione che non ha pari nella settima arte. Viziata, succube, debole, si evolve e, in un mondo violento e soprattutto patriarcale popolato di uomini prepotenti ed egoisti, impara a usare ogni astuzia, ogni mezzo e ogni stratagemma per sopravvivere, per cercare il riscatto, l’indipendenza. Prima del Tenente Ripley, di Leila Organa, di Sarah Connor, c’è stata lei.

La chimica tra gli interpreti in Via col vento è qualcosa di ammaliante, a dispetto (o forse grazie a) di rapporti molto tesi sul set. Rhett Butler è l’antitesi del principe azzurro, di Ashley, l’ennesimo eroe romantico che dominava il cinema di quegli anni. Apparentemente opportunista, cinico, è però anche dotato di una coerenza, di una capacità di andare oltre l’apparenza e la classe, semplicemente ineguagliabili.

Magnifico nei costumi, nelle scenografie, vincitore di dieci Premi Oscar, quattrocento milioni d’incasso (una cosa folle per l’epoca), Via col vento è la grande epopea americana che prende forma, è il Paese con le sue popolazioni che da agricoltori diventano abitanti di metropoli. Ma il patriarcato regna, il maschio arriva o se ne va come più gli aggrada. Rossella è collerica, egoista, mutevole, Melania l’opposto. Yin e Yang, ambiguità e opposti, ricordate? “Francamente me ne infischio” sentenzia Rhett nel finale, stanco di quella donna esasperante. Non c’è frase più famosa nella storia del cinema, nessuna. Già solo questo dà la dimensione di quanto Via col vento abbia cambiato il cinema moderno, l’abbia reso capace di impattare sulla vita, la società, il linguaggio.

A ottantacinque anni di distanza, però, la domanda rimane: che cosa dobbiamo pensare di Via col vento? La risposta è semplice: Via col vento, così come Nascita di una nazione, Il trionfo della volontà, Ombre rosse, Olympia e altre pellicole a dir poco scomode, divisive, rimane soprattutto un’opera d’arte cinematografica di prima grandezza. Ciò non toglie che la si possa criticare, ovviamente, così come chi la concepì, ma senza mettere in campo il primato della moralità sull’arte. Via col vento era un film del suo tempo, di un’America razzista, classista, patriarcale, eppure ha cambiato completamente l’industria cinematografica, il suo rapporto con il pubblico, ed è stato un punto di riferimento per una miriade di altre produzioni che hanno cercato invano di imitarne il successo.

Ammirarne la magnificenza artistica non significa non essere consci dei limiti della realtà che ambiva a riportare in vita o a ritrarre, ma accettarla come qualcosa di legato all’imperfezione non dell’arte stessa ma dell’uomo e della società. La verità è che la sua ambiguità è preziosa, inestimabile: c’è tutta l’essenza dell’arte in quanto prodotto di un’epoca e di una visione non da dimenticare ma, al contrario, da studiare nella sua imperfezione. E, ancora oggi, bastano le prime note della meravigliosa colonna sonora di Max Steiner per tornare a Tara, per capire che la storia di Rossella è stata una delle più grandi mai viste su uno schermo.

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