di Renato Benedetto («Sette», suppl. al «Corriere della Sera», 22 febbraio 2018)
Il juke-box della politica ha iniziato a suonare. Vasco Rossi evocato da Matteo Renzi, Orietta Berti per i Cinque Stelle, De André citato da Matteo Salvini. Certo, negli anni il juke-box si è fatto compilation, iPod, playlist elettorale, diventando sempre più liquido come i partiti e le ideologie.Ma non c’è campagna senza note che risuonino a margine dei comizi e dei video sui social. Con accostamenti più o meno azzeccati. Ha fatto storia il caso di Bruce Springsteen, che si chiedeva se Ronald Reagan avesse mai ascoltato davvero la sua Born in the Usa, mentre spiegava all’allora candidato repubblicano (era il 1984) che no, quella canzone non era proprio adatta alla sua campagna. Jovanotti non negò a Walter Veltroni la sua Mi fido di te, però anche lui provò a spiegare al leader dem, nel 2008, «che in realtà la canzone parla di perdita, non è proprio un inno per trionfare». Veltroni non trionfò; e l’anno successivo si trovò poi a cercare di convincere Pier Luigi Bersani, in corsa nelle primarie, che «voglio trovare un senso a questa storia anche se questa storia un senso non ce l’ha» era un ritornello ingiusto per il Pd, che un senso l’aveva, a dispetto del brano di Vasco. E così di anno in anno fino a oggi. In vista del 4 marzo non sono emersi, finora, veri tormentoni da campagna, come fu la Canzone popolare di Ivano Fossati per l’Ulivo di Romano Prodi. E le discese in campo dei musicisti al fianco dei politici sono sempre più rare. Ma ecco le scelte principali.
Pd e Matteo Renzi
È stata la voce di Vasco Rossi, che canta Un mondo migliore, ad aprire la campagna del Pd la scorsa estate: ed è la stessa che ancora si sente al termine degli ultimi discorsi di Matteo Renzi (a Perugia come a Roma). Vasco rubato a Bersani, si dirà; ma non è la prima volta che Renzi si affida al rocker, capace di emozionare con semplicità (e forse per questo un po’ abusato dalla politica). Un mondo migliore, però, introduce una nota blue nella tonalità renziana. Speranza e malinconia. «Sai, essere libero costa soltanto qualche rimpianto» è il passaggio del testo che Renzi cita anche nel suo libro Avanti. Per lui, dopo aver perso il referendum e lasciato Palazzo Chigi, si è interrotto il crescendo della felicità. Che riassunto formerebbe una scaletta da smuovere le piste? Vediamola. Renzi irrompe alle primarie 2012 con We are young (dei Fun: il verso incendiario «So let’s set the world on fire» calza a pennello al giovane rottamatore); poi Jovanotti, Ti porto via con me; la sera della vittoria alle primarie 2013 domina l’irresistibile I love it (Icona pop); l’anno successivo tocca a Happy (Pharrell Williams); questa felicità sarà immortalata alla Leopolda 2015, dopo l’euforia del 41 per cento delle Europee e quasi due anni di governo, con il karaoke su Azzurro. Ora, appunto, si vira al blu con Vasco. Non è, bisogna precisare, l’unica colonna sonora della campagna. Altro si ascolta, ad esempio, sul treno Pd Destinazione Italia che attraversa il Paese, come Riccione (Thegiornalisti) e La musica non c’è (Coez). Quest’ultima la canta pure Renzi, a favore di social: «E scusa se non parlo abbastanza…». Detto da lui…
M5S e Luigi Di Maio
L’autore dell’inno dei Cinque Stelle Lo facciamo solo noi (imitazione dello stile Vasco sul parrocchiale andante, con rime baciate talmente improvvisate da apparire quasi una geniale parodia, come «le autoblu le lasciamo alla casta/ guadagniamo quel tanto che basta/ per fortuna che qui prima o poi/ governiamo noi»), Andrea Tosatto, è ora in rotta con il Movimento. Poco importa. Certo, in passato a cantare le campagne grilline erano stati Fedez e Fabrizio Moro, fresco vincitore di Sanremo, ma nemmeno quest’anno il Movimento resta senza voce. C’è Orietta Berti, nuova icona musicale Cinque Stelle. Forse perché è emiliana, o perché è cresciuta alle Feste dell’Unità, a lanciarla in questa campagna è stato il Pd. Che è andato all’attacco della cantante, con tanto di esposti al Garante, quando lei ha detto che voterà 5 Stelle e che Di Maio è bello (non è chiaro quale delle due cose abbia colpito maggiormente gli esponenti dem). Con buona parte del Paese schierata in difesa di Orietta Berti, Di Maio ha gioco facile a cavalcare l’onda: «Finché la barca va è la mia canzone preferita», rilancia tra interviste e social. Potrebbe essere anche il suo manifesto. E non solo perché la storia comincia con un grillo (che «chiede a una formica…»). Se «il percorso politico di Di Maio – dai 59 voti alle Comunali di Pomigliano d’Arco alla vicepresidenza della Camera fino a un presente da capo politico del primo partito nei sondaggi – è stato, per citare il Financial Times, «più accidentale che frutto di un piano generale o risultato di un talento straordinario», questa barca è meglio lasciarla andare così: «Tu non remare».
Forza Italia e Berlusconi
Capita, certo, di sentire anche dell’altro. Come i pezzi di Lucio Battisti che cantavano i partecipanti alla convention di Fiuggi di settembre (Acqua azzurra, acqua chiara? Il mio canto libero?). Ma poi, nel momento clou, si torna sempre a quelle note lì. E a quelle parole: «Forza Italia/ per essere liberi, dai Forza Italia/ che siamo tantissimi», scritte proprio da Silvio Berlusconi, vuole la vulgata, per la musica di Renato Serio. Forza Italia un inno ce l’ha e non lo cambia. Un po’ perché gli anni Novanta sono tornati di moda, un po’ perché ricorda bottini elettorali di riguardo (11 milioni di voti sfiorati nel 2001). Abbinata a Meno male che Silvio c’è forma quasi una macchina del tempo – intonata con lo stile delle promesse elettorali, a base di déja vu come il ponte sullo Stretto e il contratto con gli italiani – che rimanda ad altri anni, altre campagne.
Lega e Matteo Salvini
C’era una volta la Lega Nord degli elmi con le corna da vichingo. E c’era Va’, pensiero. Ma tutto scorre, come l’acqua del Po quando è libera dalle ampolle. E oggi nella Lega di Matteo Salvini un inno non c’è. Anche perché è lo stesso leader della Lega a sapersi adattare a ogni contesto: intona Romagna mia con Raoul Casadei a Cesenatico, oppure canta Vasco a Borgo Santa Rita (Caltanissetta) alla sagra della ricotta. Le canzoni si possono cambiare come le felpe. A Genova alla convention leghista si ascolta Creuza de mä: Salvini è un fan di Fabrizio De André: «Grande, unico Faber», commenta dopo il docufilm sul cantautore genovese. Scatenando una pioggia di commenti: l’intera sua opera è inconciliabile con la tua politica, è il messaggio. Non si può sentire l’opinione del cantautore scomparso diciannove anni fa, ma già altre volte, come nel caso di Rovazzi per Andiamo a comandare o Vasco per C’è chi dice no, a Salvini è stato fatto intendere gentilmente di lasciar perdere.
Fd’I e Giorgia Meloni
Considerando patrimonio di tutti l’inno di Mameli, non è semplice rintracciare un’altra colonna sonora per il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia. Ha il sostegno, però, del soprano Katia Ricciarelli. Speriamo che non intoni l’Aida, ambientata in Egitto: con il Paese, di recente, Meloni ha avuto grane.
Liberi e Uguali e Pietro Grasso
Alla kermesse di Liberi e Uguali, lo scorso dicembre, non tutti hanno riconosciuto la canzone scelta per la campagna, forse perché pochi conoscono il suo autore, Lelio Morra. Una scelta di nicchia: cliché della sinistra? In realtà basta sentire le prime parole del brano Dedicato a chi: «Niente dà libertà più di essere sé stessi» deve essere parso liberatorio a chi ha passato buona parte della legislatura a ingoiare i rospi del Pd a trazione renziana (e a votarli, spesso) prima della scissione. L’avventura della sinistra, a marzo, alla prima riunione, era cominciata con Bandiera rossa. Chissà, comunque, se anche Morra potrà godere dell’“effetto Civati” che funzionò con Lo Stato Sociale, rivelazione di Sanremo quest’anno. Ma già nel 2014 Civati, allora nel Pd, postò un invito a scaricare C’eravamo tanto sbagliati della band bolognese: «Un titolo che va bene anche per il partito di cui faccio parte, forse». E il brano scalò la classifica di iTunes. Primo.