di Emanuele Giulianelli («Corriere della Sera», 23 settembre 2017)
Il 23 settembre 1997, esattamente vent’anni fa, gli U2 suonavano in concerto a Sarajevo, città distrutta dal più lungo assedio della Storia moderna, nella guerra fratricida della ex Jugoslavia: un evento la cui portata va ben oltre quella di uno spettacolo. Suonare a Sarajevo sembrava follia, con i Caschi Blu per le strade impegnati a far rispettare un difficile cessate il fuoco e con evidenti problemi logistici, quali la mancanza di un’idonea fornitura di energia elettrica.Per Bono è la realizzazione di un sogno, nato nel 1993, quando, non potendo portare lo Zoo TV Tour nella città in guerra, decise di finanziare il documentario girato dal giornalista Bill Carter. Nel film si racconta la resistenza urbana della gente di Sarajevo: alla follia distruttrice della guerra, la popolazione sceglie di contrapporre un concorso di bellezza. Nel maggio di quell’anno, Inela Nogic si aggiudicò il titolo di Miss Sarajevo: «Don’t let them kill us» (Non lasciate che ci uccidano) era lo slogan che lei e le altre modelle mostrarono al mondo intero in quella occasione. Da lì nacque la celebre canzone che Bono scrisse e cantò insieme a Luciano Pavarotti a Modena nel 1995. Inela Nogic divenne il simbolo della resistenza bosniaca, quella resistenza che trovò la sua vittoria nella realizzazione del concerto durante il Pop Mart Tour degli U2. «Prima della guerra — racconta Inela Nogic —, studiavo alle superiori e mi stavo godendo la mia adolescenza. Quando presi parte al concorso di Miss Sarajevo avevo diciassette anni; non mi sarebbe mai passato per la mente di iscrivermi a niente di simile, visto che ero, e sono ancora, un po’ un maschiaccio. La colpa fu di mia madre che decise di farmi partecipare. All’inizio mi arrabbiai con lei, ma cambiai idea grazie ai miei amici. Così accettai di partecipare».
La fotografia che è rimasta impressa nelle nostre memorie è quella di voi ragazze che mostrate al mondo quello striscione. Che significato aveva per voi?
«Lo slogan “Don’t let them kill us” ebbe un notevole impatto mediatico. Gli abitanti di Sarajevo volevano fermare morte e distruzione. Era un ennesimo grido d’aiuto, per richiamare attenzione sulle nostre condizioni e chiedere a chi poteva di fare qualcosa».
Lei è la protagonista della canzone di Bono Miss Sarajevo. Ce la racconta dal suo punto di vista?
«Ho scoperto l’esistenza di quella canzone tra il 1995 e il 1996, quando lavoravo come modella a Parigi. Brian Eno mi chiamò per chiedermi cosa pensavo del brano e se l’avessi già ascoltato o ne avessi visto il videoclip. Rimasi davvero sorpresa dall’esistenza di Miss Sarajevo: mi sembrava irrealistico che una band così grande come gli U2 dedicasse una canzone a me e al popolo della Bosnia Erzegovina. Sinceramente, all’inizio la canzone non mi piacque molto, ma forse perché mi ponevo con un atteggiamento troppo critico verso qualcosa che era per me così personale».
Qual è il suo ricordo personale del concerto di Sarajevo e degli U2?
«Durante e dopo il concerto tutti si dimenticarono delle cose orribili, della guerra. Non c’era spazio per un odio assurdo. Sarajevo si sentì unita, piena d’amore e di speranza. Ero presente al Kosevo Stadium quella sera: gli U2 mi invitarono a partecipare. Incontrai la band al completo: erano un gruppo di ragazzi fantastici, con i piedi per terra. Abbiamo trascorso davvero dei bei momenti insieme, ci siamo divertiti. Poi dovetti tornare a lavoro e li lasciai».
Quando Bono cantò per la prima volta Miss Sarajevo a Modena nel 1995, insieme a Pavarotti, terminò la canzone con le parole dell’Himna slobodi di Ivan Gundulic, un inno alla libertà del popolo bosniaco.
«Quelle parole hanno significato davvero tanto, soprattutto perché arrivavano da una persona così famosa. In quel momento i bosniaci hanno sentito l’importanza della loro esistenza. Le nostre vite valevano qualcosa, a qualcuno importava di noi. Perciò sicuramente Bono ha avuto un grande impatto sulla fine della guerra».
Chi è oggi Inela Nogic?
«Sono una mamma a tempo pieno di due gemelli di 15 anni, Mak e Mia, e lavoro come designer».