Uno come Yamal nell’Italia non potrebbe giocare

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di Giuseppe Civati (ilpost.it, 24 luglio 2024)

Quando ero piccolo in Serie A c’erano due e poi tre stranieri per squadra e ognuno ricorda i “suoi”: Platini e Boniek nella Juve, Maradona e Careca nel Napoli, o le favolose giaculatorie Gullit-Rijkaard-Van Basten nel Milan e Matthäus-Klinsmann-Brehme nell’Inter. A un certo punto il limite è saltato e oggi ci troviamo in presenza, non solo in Italia, di vere e proprie “squadre mondo”.

E così da un po’ di tempo si è diffusa l’opinione che nel nostro campionato giochino troppi stranieri, benché nessuno abbia mai inteso modificare questo indirizzo: secondo alcuni la loro eccessiva presenza ridurrebbe la qualità dei nostri giocatori e danneggerebbe la nostra Nazionale. Dopo la sconfitta dell’Italia contro la Svizzera agli ultimi Europei, il tema è stato ripreso anche dalla presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni. Pur dichiarandosi poco preparata in merito, ha affermato che gli scarsi risultati della nostra Nazionale – eccezion fatta per la vittoria agli Europei di tre anni fa, che smentirebbe parzialmente questa tesi – dipenderebbero «forse» dal fatto che in Serie A giochino pochi giocatori italiani: «Forse il problema è dato dal fatto che i calciatori italiani in Serie A sono sempre di meno, nel 2024 sono il 35%. Quando non valorizzi i tuoi calciatori un problema sulla Nazionale lo puoi trovare».

Ma chi sarebbero i «nostri» calciatori? Negli ultimi decenni alla tesi secondo cui l’eccessiva presenza dei calciatori stranieri impedirebbe ai giovani italiani di crescere, si è aggiunto il tema della presenza in Nazionale di calciatori che hanno conosciuto direttamente o indirettamente una storia migratoria. È un fenomeno diverso che non riguarda più soltanto le nazioni dal passato coloniale – un passato ancora molto presente –, come Inghilterra, Francia, Olanda e Belgio, ma anche quelle di più recente immigrazione, come Spagna o Italia, tra i cui convocati agli ultimi Europei però i figli di migranti non c’erano, o quasi. Nel calcio e nello sport in generale, cioè, si intersecano alcune grandi direttrici politiche della nostra epoca: globalizzazione, immigrazione, nazionalismo.

Hanno fatto particolare scalpore le imprese di due giovani talenti della Spagna, Nico Williams e Lamine Yamal. Williams è nato nel 2002 a Pamplona, nel Paese Basco, da una famiglia originaria del Ghana, e gioca insieme a suo fratello più grande nell’Athletic Bilbao, una squadra storicamente formata da soli baschi, cresciuti nella scuola calcistica della città. L’Athletic è una vera bandiera della città e del popolo basco, una squadra-comunità cui a migliaia sono tesserati fin dal primo giorno di vita, con la foto da neonati sulla tessera del club.

Dopo aver fatto furori sul campo, il basco Williams ha celebrato le vittorie della sua squadra, ha parlato di razzismo dicendo che si può essere spagnoli anche senza dimenticarsi delle proprie origini, del deserto, delle frontiere e del lungo viaggio che ha portato i propri genitori in Europa: «Corro molto veloce, ma non quanto mia madre. Perché una volta lei è scappata dalla morte, e ha attraversato il deserto del Sahara dal Ghana rurale per farmi diventare quello che sono oggi. Do la mia medaglia a mia madre perché la merita più di chiunque altro».

È altrettanto lampante la vicenda di Lamine Yamal, ala destra del Barcellona e talento mancino purissimo, che ha compiuto diciassette anni il giorno prima della finale, dove ha giocato da minorenne. Yamal è figlio di una equatoguineana e di un marocchino e proviene da Mataró, quartiere di Rocafonda, una delle tante periferie delle grandi città europee. Quando esulta disegna con le mani il numero 304, le ultime cifre del codice postale del suo barrio, uno di quei quartieri “problematici” che l’estrema destra spagnola addita come luoghi dove si è persa l’“identità” del Paese, che invece Yamal con quel gesto rivendica.

I figli di migranti non giocano solo nella Spagna campione d’Europa. Dopo la semifinale vinta dall’Inghilterra contro l’Olanda, sull’account Instagram del Migration Museum, un’istituzione che racconta le storie di migrazione da e verso il Regno Unito, è stato pubblicato questo testo: «Senza l’immigrazione non avremmo vinto. I due goal sono stati realizzati da figli di immigrati. Dieci dei quattordici giocatori che sono entrati in campo nella partita con i Paesi Bassi sono nati all’estero o hanno almeno un genitore o un nonno nato fuori dal Regno Unito. E se rintracciate le famiglie di quasi tutta la squadra dei Tre Leoni, troverete storie di migrazione».

Il protagonismo dei giocatori con background migratorio prosegue anche dopo i novanta minuti di gioco: durante gli Europei Kylian Mbappé ha invitato in più occasioni i francesi ad andare a votare per fermare l’avanzata dell’estrema destra e ribadire – è importante sottolinearlo – i valori repubblicani della Francia, dando rappresentanza alla mixité che lui rappresenta, insieme ad altri compagni di squadra. In Italia, al di là delle posizioni inaccettabili di chi riflette sui tratti somatici che distinguerebbero i “nuovi” dai “vecchi” italiani, come ha fatto Roberto Vannacci con Paola Egonu, si continua spesso a ragionare in termini di “noi” e “loro”, anche quando si tratta di ragazzi che giocano nella stessa squadra. Anche perché a queste difficoltà culturali si assommano quelle legislative e burocratiche.

Mauro Berruto, già commissario tecnico della Nazionale di pallavolo maschile e oggi parlamentare del Partito Democratico, ha fatto notare che nell’Italia un giocatore minorenne come Lamine Yamal non sarebbe potuto scendere in campo. In mancanza dello ius soli (o dello ius culturae o, ancora, dello ius scholae, come sono stati chiamati in questi anni, senza peraltro essere mai approvati), la cittadinanza per un bambino nato in Italia da genitori stranieri si può richiedere solo al compimento del diciottesimo anno di età, e spesso bisogna aspettare parecchio tempo per ottenerla (anche in ragione di interventi normativi che in questi anni hanno allungato i tempi, invece di ridurli, come sarebbe civile e ovvio).

Certo, nel 2016 era stato introdotto il cosiddetto ius soli sportivo. La norma intendeva consentire alle ragazzine e ai ragazzini di iscriversi alle squadre sportive alle stesse condizioni dei loro compagni (“ius campi”, verrebbe da dire, più che ius soli, benché spesso nel contesto migratorio i campi sono quelli dell’agricoltura, che sono tornati d’attualità e che costituiscono una vergogna nazionale). Con questa formula si equiparavano di fatto, almeno dal punto di vista sportivo, i nostri ragazzini – tutti i nostri ragazzini.

Nel corso della penultima legislatura la situazione si è complicata a causa di un intervento legislativo che avrebbe voluto migliorare le cose e, invece, ha creato confusione e maggiori difficoltà per chi vuole “tesserare” bambini che per la legge italiani non lo sono ancora (nelle scuole italiane studiano quasi 900mila ragazzi stranieri minorenni residenti in Italia, che per il 70 per cento in Italia ci sono anche nati). A generarle non è tanto la norma in sé, ma l’interpretazione della Federcalcio che si è ispirata alle regole Fifa, molto stringenti, per evitare il fenomeno della tratta dei giocatori talentuosi. La conseguenza è che già dalla scorsa stagione le società che vogliono iscrivere minori senza cittadinanza sono costrette a produrre molta più documentazione rispetto agli anni precedenti e a quella richiesta ai loro compagni di squadra italiani.

Il 17 luglio 2024 lo stesso Berruto si è fatto promotore di un ordine del giorno parlamentare per chiedere al governo di affrontare la questione. Dopo aver ricordato che «i ragazzi stranieri minorenni, residenti in Italia, non possono essere convocati per le selezioni nazionali, e devono perciò aspettare la maggiore età per poter indossare la maglia azzurra», il testo del gruppo Pd chiedeva al governo di: «avviare azioni anche normative volte a riconoscere a tutti i minori nati in Italia e/o con background migratorio, un diritto di accesso alla pratica sportiva, garantendo altresì loro la possibilità di competere in tutti i campionati italiani e, per evidenti meriti sportivi confermati da una apposita commissione Coni, anche la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana nel caso in cui abbiano completato un ciclo scolastico di almeno cinque anni».

Benché il discorso fosse volutamente circoscritto allo sport, il governo ha dato parere contrario e la Camera ha respinto. Intanto, su La Stampa, il ministro dello Sport Andrea Abodi parlava delle «belle storie come quella di Yamal». Siamo certi che tra qualche giorno, alle Olimpiadi, i rappresentanti della maggioranza, nascondendo l’ipocrisia dietro la bandiera tricolore, celebreranno proprio quegli atleti che faranno salire l’Italia nel medagliere, ragazze e ragazzi con storie di migrazioni alle spalle che evidentemente sono italiani solo se hanno vinto già. Il problema, insomma, è sempre lo ius soli e la percezione che abbiamo di noi stessi: siamo un Paese che ne discute almeno da una dozzina d’anni senza trovare misure per risolvere la questione né dare rappresentanza a un’Italia che è già profondamente cambiata, come sarà ancora più evidente alle Olimpiadi.

L’opinione pubblica e la politica continuano a occuparsi degli sbarchi (come se fossero l’unica cosa rilevante e gli stranieri stessero eternamente sbarcando), ma la società è in evoluzione e le resistenze della politica, oltre a essere crudeli per molte ragazze e ragazzi – anche maggiorenni –, sono contrarie ai nostri stessi interessi nazionali, non solo nel calcio. Al bar dello sport della politica italiana farebbe bene riflettere con più misura su ciò che siamo, senza ricorrere a luoghi comuni ormai superati dai fatti, in ragione di un nazionalismo che anziché stemperarsi viene rivendicato senza criterio e parlando – e legiferando – a vanvera.

In questi giorni ho letto commenti molto critici, per non dire razzisti, secondo cui gli atleti con storie di migrazione e spesso di povertà assoluta (ma anche questo è un argomento tabù) non conoscerebbero la cultura e le tradizioni dei Paesi che rappresentano. La verità è che spesso non conoscono il Paese di origine dei loro genitori e nonni, di cui però, come è normale, festeggiano il buon risultato. Sono nati o arrivati da piccoli nei Paesi per cui giocano, o semplicemente sono figli di coppie miste. Le loro storie dicono che lo sport è ancora un elemento di riscatto (come lo è da sempre) e rappresentano compiutamente quel caleidoscopio che il mondo è diventato e diventerà sempre di più.

Lo si è visto agli Europei di atletica e lo si vedrà tra poco alle Olimpiadi di Parigi, ma questa trasformazione è evidente anche nel calcio dei più giovani, come dimostrano i convocati della Nazionale italiana Under 21 (che hanno, quindi, superato la maggiore età): il portiere ha il papà francese; il difensore della Fiorentina Michael Kayode è nato a Borgomanero da genitori nigeriani; Luis Hasa, figlio di una coppia albanese, è di Sora; Cher Ndour è nato a Brescia, il papà è senegalese, e gioca nel Paris Saint-Germain dopo aver militato nel Benfica e nel Braga; in Portogallo, la famiglia del torinese Franco Tongya è camerunese e sono ivoriani i genitori di Wilfried Gnonto, nato a Verbania, ora al Leeds e più giovane marcatore nella storia della Nazionale italiana.

La composizione dell’Under 21 di calcio ci dice che la stessa cosa succederà presto anche nella Nazionale maggiore; soprattutto la società, il mondo dello sport e le società di calcio investiranno nella crescita di quelli che un tempo si chiamavano vivai. Se la politica e la burocrazia non ostacoleranno anacronisticamente quello che sta già succedendo. La mescolanza arricchisce anziché impoverire, e dove si scambiano storie si scambiano anche, se si vuole, tecniche e tattiche. Se poi qualcuno vince è anche meglio, no?

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