di Dario Ronzoni (linkiesta.it, 22 ottobre 2020)
Gli aspetti che rendono Donald Trump inadatto al ruolo che (per ora) ricopre sono pressoché infiniti. Può essere lo stile, la personalità, le idee. Perfino l’estetica. Ma la ragione più seria si può riassumere nella sua totale mancanza di competenza. Oppure, come suggerisce #Unfit, film-documentario di Dan Partland che esce il 22 ottobre in Italia, nella sua psicologia. Nonostante abbia più volte sostenuto di stare bene, anzi benissimo («very stable genius», diceva), il parere di numerosi psicologi e psichiatri è molto diverso. Trump soffrirebbe di narcisismo maligno, sindrome che comprende quattro elementi: comportamento anti-sociale (totale assenza di rimorso), paranoia (la convinzione di essere sempre sotto attacco), sadismo (la violenza verbale, nei tweet e nei rapporti con le persone) e, come è ovvio, narcisismo, spinto all’estremo.Non ci sarebbe nulla di male – spiegano – in questa ultima componente. «Molti politici sono narcisisti», sorride John Gartner, psichiatra ed ex professore alla Johns Hopkins Medical School che compare più volte nel film. Il problema è il mix con le altre: il risultato è che Trump è allora un narcisista «del tutto privo di empatia», disinteressato agli altri, manipolatore, infido e inaffidabile. Lo si è visto in ogni occasione: ha mentito più o meno ogni volta che ha potuto, si è attribuito meriti non suoi, ha negato colpe e responsabilità, ha lanciato accuse infondate. Per ottenere il proprio vantaggio personale non ha esitato a fomentare odio e divisione, ha esacerbato lo scontro, si è appoggiato a gruppi estremisti solo perché gli davano ragione. Ha fatto dell’arte dell’inganno la sua vera arte del business, dimostrandosi privo di scrupoli.
Addirittura, spiega Rick Reilly, giornalista sportivo che compare nel documentario, «bara anche quando gioca a golf», nonostante sia – e questo è una sorpresa – «il più bravo, tra i presidenti americani». Un bisogno quasi patologico: ha fatto truccare la sua golf car per renderla più veloce delle altre, arrivare prima degli altri e spostare la posizione della pallina. «Ha dichiarato vinti tornei in cui era l’unico giocatore. A volte erano in due, lui e Melania». Sarebbe un aspetto bizzarro ma divertente, se si fermasse lì. Ma per Reilly «una persona che bara nel golf, cioè nello sport dove è più facile in assoluto farlo – non ci sono arbitri, nessuno ti controlla, spesso si è da soli – può barare in qualsiasi situazione». Dai rapporti d’affari a quelli di amicizia, passando per quelli coniugali (le sue infedeltà sono più che note), fino alle dichiarazioni dei redditi.
Trump è il profilo psicologico sbagliato nel posto sbagliato e nel momento storico sbagliato. Il documentario si allarga a questo punto a un confronto, inquietante, con altre figure di potere della Storia che hanno condiviso i suoi tratti: Mussolini, Hitler, ma anche Gheddafi, Mobutu e gli attuali leader non democratici del mondo come Putin, Kim Jong-un, Bolsonaro e Duterte. Tutte figure che, anche in tempi e situazioni diverse, hanno condiviso la convinzione che «la democrazia sia un esperimento ormai fallito». Un leader insensibile a questi valori (anche per la sua conformazione psicologica) rappresenta la peggior carta che potesse uscire dal mazzo.
Uno degli aspetti più interessanti del documentario riguarda il problema delle diagnosi a distanza. Proibite, o quantomeno sconsigliate, dalla famosa regola Goldwater. Non è proprio così, spiega Gartner. Nel 1964, durante la campagna elettorale per le presidenziali, la rivista Fact aveva pubblicato un sondaggio di oltre mille psicologi e psichiatri secondo i quali il candidato repubblicano fosse «unfit» per diventare presidente. Si trattava di un ammasso di affermazioni infondate: Berry Goldwater dicevano non avrebbe «superato il fatto che suo padre fosse ebreo», addirittura «aveva in fondo una natura genocida». Il senatore li denunciò e vinse. «E ha fatto bene». Da questo episodio nasce la cosiddetta regola, diventata – a livello di percezione comune – una sorta di dogma: mai fare diagnosi di personalità pubbliche che non si sono conosciute di persona.
«Ma in realtà non c’è mai stato un bavaglio». Era piuttosto l’invito a non esprimere speculazioni infondate sul profilo psicologico di una persona. Non conoscere il paziente, o conoscerlo pochissimo, senza dubbio poteva portare a diagnosi inesatte. In quei casi, meglio evitare. Nel caso di Donald Trump è diverso. Anche perché, negli anni, sono cambiate molte cose, gli orientamenti generali degli psicologi sono mutati e, «come è scritto negli ultimi Dsm, il manuale diagnostico dei disturbi mentali», l’analista può fare una diagnosi basandosi su ogni tipo manifestazione del comportamento del soggetto considerato. E di Donald Trump «queste manifestazioni abbondano». Sono i tweet, le conferenze stampa, le apparizioni televisive, le interviste: «il presidente fornisce manifestazioni evidenti del suo comportamento più di chiunque». La diagnosi, insomma, è solida. Anzi, «se sottoposto a un incontro tradizionale, data la sua natura sociopatica e incline alla bugia, avrebbe mentito, negato, sottovalutato ogni sintomo». È un narcisista maligno, il parere degli esperti è chiaro. Anche per questo è inadatto a fare il presidente.
Avere un disturbo mentale, spiega il documentario, non costituisce sempre e comunque un impedimento per questo ruolo. Abraham Lincoln soffriva di depressione, ma questo non lo ha ostacolato. Anzi, forse proprio questa sua disposizione mentale «lo avrebbe aiutato a sopportare le sofferenze della Guerra Civile». Il problema di Trump, oltre a Trump stesso, è il suo disturbo. La negazione della realtà che lo infastidisce, l’incapacità di sopportare il dissenso, la considerazione eccessiva di sé, le menzogne e i «fatti alternativi» che impediscono un confronto sereno con la realtà rischiano di diventare i tratti patologici di un intero Paese. E le conseguenze – il documentario chiude sul potere del presidente di azionare gli armamenti nucleari – potrebbero essere devastanti.