di Giulio Zoppello (esquire.com, 24 dicembre 2024)
Infine ci siamo, anche quest’anno ci guarderemo Una poltrona per due [Trading Places, di John Landis, 1983], Dan Aykroyd ed Eddie Murphy che si scambiano di posto, si fanno la guerra tra battute, disastri, con il tentativo di rivincita che passa per Wall Street, quel cavolo di succo d’arancia. E poi Jamie Lee Curtis impertinente come non mai, Don Ameche e Ralph Bellamy che giocano con le vite degli altri, quel folle scompartimento del treno tra travestimenti e gorilla.
La commedia di John Landis è tornata in sala pochi giorni fa, dal momento che il film è diventato in questi quarant’anni un classico per le feste transgenerazionale. Una poltrona per due però è anche considerato da alcuni un film discutibile, per certe supposte criticità di rappresentazione delle minoranze e del mondo femminile, e da tempo viene definito un film controverso.
Creato dalla magica penna di Timothy Harris ed Herschel Weingrod, avrebbe dovuto celebrare la magia del duo Gene Wilder e Richard Pryor, ma l’incidente di cui rimase vittima il secondo aprì le porte a Eddie Murphy e Dan Aykroyd. Successo clamoroso di pubblico, alimentatosi anno dopo anno grazie all’home video, alla televisione, al fatto che Una poltrona per due rappresentava e ancora oggi rappresenta gli anni Ottanta nella loro ambigua totalità. Ma più ancora, questa screwball comedy ancora oggi è un film profondamente politico.
Una poltrona per due è un film importantissimo perché capace d’interpretare un’epoca e con essa tutte le sue fragilità e problematiche. Ci mostra tutte le contraddizioni del capitalismo, quel capitalismo che proprio negli anni Ottanta aveva rotto ogni argine e dominava. Da The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, con Leonardo DiCaprio su di giri, ad Oliver Stone armatosi di Micheal Douglas in Wall Street, fino a Margin Call di J.C. Chandor, il cinema è pieno di film che hanno cercato di parlarci di come l’ingordigia, l’accumulazione di denaro e potere slegata dalla moralità siano il vero volto dell’American Dream che s’impone negli anni della Reaganomics.
Una poltrona per due parte dall’inversione dickensiana della sorte tra il broker Louis Winthorpe III (Dan Aykroyd) e il piccolo delinquente Bill Valentine (Eddie Murphy), orchestrata dai fratelli Duke, per capire cosa decida il destino di un uomo: se l’ambiente in cui cresce o una predisposizione. Louis finirà in rovina, incastrato da Clarence Beeks (Paul Gleason), complice dei Duke, trattato come uno dei delinquenti di strada che disprezzava, abbandonato anche dal fido maggiordomo Coleman (Denholm Elliott). In suo soccorso solo la prostituta Ophelia (Jamie Lee Curtis). Valentine si renderà conto di essere finito al centro di una macchinazione infernale, e l’alleanza imprevedibile con Louis segnerà la rovina dei Duke in una seduta di Wall Street passata alla storia del cinema.
La prima cosa che si nota di Una poltrona per due è come John Landis renda palpabile la diseguaglianza che impera in quell’America coperta di neve e beni di lusso. Siamo nel pieno della rivoluzione generata dal mito yuppie, la Borsa è la nuova grande frontiera, quell’America crede esclusivamente nell’individualismo, nel consumismo e nel successo economico da esibire. Il “liberi tutti” generato dalla Scuola di Chicago crea un assoluto in quegli anni: o sei un vincente o sei un perdente. Il mito del self-made-man non prevede aiuti o assistenza, lascia le minoranze disperatamente sole nei ghetti, allo sbando.
Bill Valentine di questo è simbolo, con il suo ambiente di afro e ispanici, da cui fugge, ritratto di un sottoproletariato incapace di lottare collettivamente come ai tempi di Martin Luther King o Fred Hampton. Fateci caso, quando torna nel bar dove veniva umiliato e poi invita tutti nella sua nuova villa, si rende conto in poche ore che quella vittoria non è reale. Le donne lo vogliono, tutti lo ammirano, certo, ma solo per i soldi, che però ora sono più importanti di tutto, così come gli oggetti che possiede, che ora lo posseggono. Siamo in anticipo sui tempi rispetto a Chuck Palahniuk e Fight Club, ma Una poltrona per due è critica sociale e di costume, è il volto spietato del classismo che investe la comunità afroamericana. Niente più Muhammad Alì, niente più impegno civile, ma il sogno di vivere come i bianchi, gli stessi bianchi che, come i Duke, disprezzano i neri intimamente e con furore.
Una poltrona per due cavalca una grande paura, quella della povertà, connessa alla Grande Depressione del ’29 e tornata poi in vita con lo shock petrolifero del 1973. La povertà è il virus da cui sia Louis sia Bill, come ogni altro personaggio qui presente, cerca di scappare, ingannare, infliggere ai propri nemici. Insegue chiunque come un maleficio o una condanna. Landis, però, ci mostra come Louis e Bill e la loro allegra brigata riescano a fregare il sistema con le sue stesse armi. Importante è far notare come in Una poltrona per due i Duke e i loro pari la ricchezza la ottengono con la corruzione, e la stessa li porterà alla rovina. I Duke rappresentano le grandi dinastie americane: i Kennedy, i Rockfeller, i Mellons, così come i loro eredi guru hi-tech del XXI secolo.
Tutti loro vincono per furbizia più che per talento, con l’opportunismo più che con i sogni. I Duke sono gente che non cambia, come non cambia la loro visione dell’America: i non-bianchi per loro sono anche non-americani, oltre questo non c’è nulla. Landis lo mostra nella celebre sequenza dello scompartimento ferroviario. La blackface di Aykroyd e il resto sono un gioco nel gioco, un classico di Landis poi usato da Ben Stiller in Tropic Thunder o da Trey Parker in Team America: World Police. Si ride di stereotipi che devono mostrarci la limitata visione del mondo dell’America, quella di allora come quella di oggi. Landis ci fa capire che classismo e razzismo sono due lati della stessa medaglia; nessuno dei ricchi che Louis o Bill incontrano appartiene a una minoranza. Non è affatto un caso.
Una poltrona per due è un mondo in cui ogni rapporto umano è mediato dal denaro o dal beneficio. Inizialmente è così anche per Ophelia, tutt’altro che ininfluente o secondaria, anzi, simbolo della fine dell’ondata femminista di quel decennio. Niente ideali, servono soldi ragazzi, solo con quelli è libera e tanti saluti al resto. Questa commedia ha quindi un’anima amara, amarissima. John Landis celebra la morte del sogno del ’68 e ciò che ne consegue.
Louis, Bill, Ophelia e Coleman sconfiggono i Duke, diventano oscenamente ricchi e finiscono su un’isola tropicale. Sono diventati come i Duke, il sogno del successo è realizzato: Landis lo mette in mostra con desolante realismo. Tutto questo è nascosto da una macchina comica magnifica, con gag, dialoghi e un ritmo travolgente. Film di Natale? Non c’è trama meno legata al Natale di questa crociata di egoismi contro egoismi. Ecco perché Una poltrona per due è così importante: non perché è diventato un film natalizio, perché è divertente o è un mito della pop culture cinematografica.
Il film di John Landis è la dimostrazione suprema di come attraverso una risata si può dire la verità, parlare della società in modo mille volte più efficace di ogni altro genere. La sua essenza politica è ancora attuale, perché quell’America e quel culto della ricchezza facile, del consumismo sopra tutto, è la vera, grande religione che domina la nostra vita, quarant’anni dopo Louis e Valentine.