di Giovanni De Mauro (internazionale.it, 12 novembre 2020)
È stato un periodo impegnativo per “una donna”: è stata nominata alla guida della banca centrale giapponese, di Facebook in Africa, di una squadra di pompieri in Francia, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stata eletta perfino alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Una pagina satirica di Wikipedia segnala le volte in cui, sui mezzi d’informazione di tutto il mondo, nel titolo di una notizia si parla genericamente di “una donna” senza farne il nome. «Dopo anni di silenzio, le conquiste delle donne sono rese invisibili dall’espressione “una donna”. Non riusciamo a sapere chi ha fatto cosa, e non siamo quindi in grado di dare a queste donne il giusto riconoscimento», spiega l’attivista Sherine Deraz.
Quando ci si fa caso la prima volta, si comincia a notare “una donna” dappertutto. “Una donna” ha tante nazionalità, molte professioni e infinite competenze. Ma non sono solo belle notizie quelle che la riguardano: in Italia “una donna” muore ogni due giorni, uccisa dal marito o dal compagno. «Nessuno scriverebbe in un titolo “Un uomo eletto presidente di”, sarebbe ridicolo», spiega Marlène Coulomb-Gully, dell’Università di Tolosa. «Questo perché le donne sono trattate come se avessero una qualità specifica, mentre gli uomini sono visti come se avessero una qualità universale».
“Una donna” finisce nei titoli spesso involontariamente, per pigrizia o sciatteria di chi i titoli li scrive (ed è capitato anche a Internazionale). Ma a volte serve a sottolineare la novità. «Così facendo, però, si rischia di rafforzare l’eccezionalità dell’evento in un mondo dominato dagli uomini, e al tempo stesso di rendere la persona invisibile», fa notare Benjamin Dodman di France 24. «Evidenziare il ruolo delle pioniere può avere un’utilità educativa, purché sia accompagnato da un esame della natura sistematica delle discriminazioni di genere che spieghi perché l’attesa di una donna è stata così lunga», aggiunge Coulomb-Gully.