di Francesco Caremani e Diego D’Ippolito (huffingtonpost.it, 26 settembre 2018)
L’ex primo ministro britannico, Tony Blair, a capo della Premier League. Quella che potrebbe sembrare una boutade di fine estate o, peggio, una fake news, è in realtà una possibilità concreta. Il suo nome è stato fatto nelle discussioni informali tra i club del massimo campionato inglese dopo l’annuncio di Richard Scudamore di lasciare l’incarico a fine anno per dedicarsi alla famiglia e alla squadra del cuore, il Bristol City.Una novità stimolante per il promotore della terza via. A proposito: vi ricordate la terza via, quella strana sintesi tra neoliberismo e progressismo? Ne furono affascinati in tanti, sicuramente tutti coloro che non riuscivano più ad essere di sinistra. Giddens oltre Marx, Blair oltre i laburisti. Proprio Blair si pose a capo ideale di quella corrente alla quale si affacciarono, ormai all’inizio di questo secolo, anche leader italiani come Massimo D’Alema. Il leader laburista, primo ministro del Regno Unito dal 1997 al 2007, ha segnato una vera e propria epoca nel suo Paese e nel suo partito al quale volle appiccicare quel «New» per distinguersi dal passato. Un lungo periodo di governo tra riforme, inciampi in politica estera, un dialogo molto stretto con Bush e gli sciagurati interventi militari. È dal giorno seguente le sue dimissioni che è iniziata per Blair una seconda vita, chiamiamola pure la seconda via, dal momento esatto in cui ottenne la carica d’inviato speciale ufficiale del Quartetto sul Medio Oriente, fino al maggio del 2015. Oggi Blair è pronto per riscendere in campo. Certo, bisognerebbe capire quale: se quello politico o quello da calcio. Blair, è tifoso del Newcastle United, un tifo tiepido con qualche gaffe, come la dichiarazione di avere visto l’ultima partita di Jackie Milburn (stella della squadra dal ’43 al ’57) seduto nella Gallowgate End, peccato, ricordano i media britannici, che tutto il pubblico fosse in piedi e, soprattutto, che all’età di quattro anni Tony Blair vivesse in Australia. Un eccesso di protagonismo che si paga caro in quei Paesi dove il football è il romanzo popolare. Insieme al suo sono stati fatti i nomi di Gavin Patterson, ex capo del BT Group, operatore telefonico privato britannico, e di Barney Francis, managing director di Sky Sports. Prima che passasse al Milan avevano pensato anche al sudafricano Ivan Gazidis, già vicecommissario della Mls e direttore esecutivo dell’Arsenal che ha salutato dopo avere siglato il nuovo contratto con Adidas che sostituirà Puma dalla prossima stagione nella fornitura delle maglie per la squadra londinese. La poltrona di Scudamore fa gola per lo stipendio che si aggira intorno al milione di sterline l’anno, ma porta con sé tante responsabilità e un grande interrogativo. Richard Scudamore ha guidato la Premier League per vent’anni, governandone la trasformazione e l’espansione, soprattutto economica, portando i diritti televisivi dai 670 milioni di sterline del 1999 ai 5,14 miliardi di oggi. Per un campionato che non ha mai conosciuto crisi, in questo senso, sono in tanti a chiedersi quanto potrà espandersi ancora o se incontrerà momenti di flessione che andranno saputi affrontare con autorevolezza e competenza. Secondo alcuni dirigenti Tony Blair sarebbe l’uomo giusto, dimenticando che ha concluso l’incarico di primo ministro un anno prima dell’inizio della grande crisi economica. Però di affari Tony Blair se ne intende e anche se la sua società, la Tony Blair Associates, non esiste più, rimangono nel suo curriculum una decina di anni tra consulenze, ricchissime conferenze e una rete di contatti forti da mettere a disposizione. Un lungo periodo trascorso come consulente per importanti banche di affari come la Jp Morgan, aziende e politici e Paesi come Kazakistan, Mongolia, Abu Dhabi, Kuwait. Insomma, la lista è lunghissima e negli anni il leader della terza via si è fatto vedere molto spesso in Italia. Dal 2014, come ha svelato il Guardian, è pure lobbista per il consorzio che sta costruendo Tap. Quel Tap che, a tratti, torna tra i temi protagonisti nella frattura tra Lega e M5S. E proprio di Tap Blair e Salvini hanno parlato alcuni giorni fa, con tanto di foto che avrà fatto tremare le gambe ai progressisti di mezza Europa. Ma si sa, gli affari sono affari ed è di questo che Blair si occupa come la maggior parte dei vecchi politici continentali che non hanno mai fatto smettere di far valere il loro peso di contatti e relazioni. Per tutto questo bagaglio di esperienze in molti lo vedrebbero bene alla guida di quella che è definita l’Nba del calcio. La Premier League dal punto di vista economico non teme rivali, visto che le squadre più piccole incassano dai diritti televisivi quasi quanto il Barcellona dalla Uefa nell’ultima stagione in cui ha vinto la Champions League, paradossi del calcio contemporaneo. Basta dare un’occhiata alla Football Money League, redatta dalla Deloitte, per capire. Nella classifica dei ricavi, tra le prime dieci squadre cinque sono inglesi, dieci tra le prime venti; l’anno scorso erano otto. Graduatoria comandata dal Manchester United con 676,3 milioni di euro (dato 2016-17), il Manchester City è quinto con 527,7, l’Arsenal sesto con 487,6, il Chelsea ottavo con 428 e il Liverpool nono con 424,2. Per farsi un’idea più precisa, i ricavi dello United, che insieme al Liverpool ha il brand più forte, derivano per il 19% dalle partite, per il 33% dai diritti televisivi e per il 48% dalle attività commerciali. Secondo una ricerca di statista.com il 9% dei tifosi della Premier League spende più di 124 sterline l’anno nel merchandising della squadra del cuore, il 10% da 62 a 123, il 16% da 21 a 61, il 7% da 1 a 20 e il 24% niente; il rimanente 34% non ricorda o preferisce dimenticarlo. Il 63% compra il nuovo kit tutti gli anni. Un tifoso che segue regolarmente il club può spendere dalle 712 alle 1.118 sterline l’anno, di queste il 40% se ne va in biglietti o abbonamenti a pay-tv e servizi in streaming e nel totale sono compresi il merchandising, il cibo e le bevande consumati allo stadio. Stiamo parlando di un sistema cresciuto nel tempo che è riuscito a catalizzare capitali stranieri, risanando gravi situazioni debitorie, con regole amministrative certe, capace di reggere l’urto del fair play finanziario, nonostante fosse una delle leghe più contrarie. Innovazione e tradizione, anche se la prima ha preso il sopravvento, tanto che molti fan del “vero” calcio inglese seguono il Championship e i campionati minori, tra fame di genuinità e quel senso di primogenitura che fa molto radical chic, con pinta di birra al posto dello champagne. Se Tony Blair diventasse il numero uno della Premier League di sicuro dovrà affrontare un tema politico, molto caro ai laburisti, e non solo. Da anni, infatti, si parla, per alcuni settori dello stadio, di tornare a tifare tutti in piedi come una volta. Gli impianti inglesi oggi non sono solo il frutto dell’evoluzione economica e mediatica del calcio, sempre più patinato, ma anche del dopo Hillsborough, con il rapporto Taylor da una parte e la ferrea volontà della conservatrice Margaret Thatcher dall’altra. Rimettere mano alla regola del tutti seduti, che permette di controllare in sicurezza ciò che accade, non sarà facile e chi avrà la meglio su questa, vista la campagna mediatica che sull’argomento è stata scatenata in Inghilterra, potrebbe ritrovarsi con un interessante bacino di voti in mano: secondo un sondaggio redatto dalla Football League il 94% dei tifosi inglesi è favorevole al cambiamento. Chissà se oggi Blair è realmente stanco delle consulenze e delle accuse che gli sono piovute da quel mondo del quale è stato per lungo periodo un leader. Forse il calcio potrebbe essere per lui la vera terza via. Oppure, se dovesse andare male sul campo da gioco, potrebbe decidere di sfidare il suo “amico” Jeremy Corbyn, il leader socialista che, pur perdente, è il nuovo faro della sinistra.