(agi.it, 25 febbraio 2023)
Abiti che parlano. O meglio, che lanciano messaggi di emancipazione, di femminismo. Sono i due marchi di fabbrica di Maria Grazia Chiuri, da sei anni direttrice creativa di Dior. Al fianco delle donne per dar loro voce. L’ultima a sfilare con una sua creazione è stata Chiara Ferragni che, sul palco dell’ultimo Festival di Sanremo, ha sfoggiato abiti manifesto della stilista italiana che ha regalato alla maison un boom di vendite. Dal 2017, quando sono state messe in vendita le prime collezioni della Chiuri, i ricavi di Dior sono triplicati, raggiungendo i 6,6 miliardi di euro.
E si sussurra che Dior potrebbe addirittura raggiungere il suo più grande rivale per i diritti di vanto della moda parigina, Chanel. Ma la stilista ha davvero riscritto le regole della moda? Se lo chiede il Guardian che, sul suo sito, riporta una lunga intervista al primo direttore creativo donna nei settantacinque anni di storia della maison. E si dice che Vivienne Westwood sia stata delusa di non essere stata scelta quando il posto è andato a John Galliano, nel 1995. «Tutti erano così sorpresi quando sono diventata la prima donna al comando. Nessuno parlava del fatto che lavoravo nella moda da quando avevo vent’anni». La Chiuri era poco conosciuta al di fuori dell’industria, ma era venerata al suo interno, avendo creato l’iconica borsa Baguette per Fendi negli anni Novanta e, con il partner creativo Pierpaolo Piccioli, rivitalizzato Valentino negli anni 2000. «Penso che sia molto difficile per le donne arrivare in posizioni di potere. La narrazione è sempre che i geni sono gli uomini. Perché nessuno ricorda Vionnet [Madeleine, pioniera dell’abito tagliato di sbieco – N.d.R.]? Era un genio più di molti uomini».
Quando le luci si sono abbassate per la prima sfilata di Chiuri da Dior, nel settembre del 2016, il pubblico si aspettava un nuovo look. Un nuovo orlo, un nuovo colore, una nuova epoca rinvigorita: sono questi i modi in cui un nuovo stilista imprime un’identità a un marchio. Invece, abbiamo ricevuto un nuovo insieme di valori. Un nuovo punto di vista. Una maglietta slogan, con la citazione di Chimamanda Ngozi Adichie: “Dovremmo essere tutti femministi”. Chiuri ha toccato un nervo scoperto, mettendo elegantemente in discussione il modo in cui il femminismo è visto come un’opposizione alla femminilità. Si trattava di una vibrazione radicale, proveniente da Dior, una casa che, da quando è esplosa sulle prime pagine dei giornali nel 1947 con il New Look – una vita stretta, la suggestione di fianchi da bambino sotto una gonna piena – ha rappresentato una visione romantica e tradizionale della femminilità.
Dior «ha creato quella silhouette quando le donne in Francia erano molto magre, a causa della guerra. Voleva dare alle donne un corpo che desse loro ottimismo per il futuro. Sua sorella Catherine era tornata da un campo di concentramento, quindi darle questo grande abito, dove poteva guardarsi allo specchio e vedere questo nuovo corpo, significava darle speranza». Ma il 1947 è stato una vita fa. I tempi cambiano: questo è letteralmente il senso della moda. «Avere una sola silhouette oggi, oggettivizza le donne. Non dobbiamo mai dimenticare che la moda parla del rapporto della società con il corpo delle donne, più che con quello degli uomini. Sono cresciuta in una famiglia femminista, in una società patriarcale. L’aborto, il divorzio – questi temi erano presenti quando stavo crescendo, e c’erano molte discussioni nella mia casa. I miei genitori non mi dicevano che dovevo trovare un marito, mi dicevano: “Devi studiare, devi trovare un lavoro, devi crearti una vita ed essere indipendente”».
Chiuri è nata e cresciuta a Roma, con una madre sarta e un padre militare. «Era una famiglia di operai. I vestiti dovevano essere resistenti e funzionali». L’approccio intellettuale che ha portato a Dior è in contrasto con una vita domestica sempre radicata nella praticità degli abiti: cresciuta circondata dai modelli di cucito della madre, ha poi sposato un camiciaio su misura, Paolo Regini, conosciuto durante una vacanza in Sardegna. Al loro matrimonio indossava una semplice gonna bianca, una camicia di pizzo e un cappotto beige. L’autrice ricorda la sua infanzia negli anni Settanta come un periodo di sconvolgimenti sociali in Italia. Aveva sei anni quando il divorzio divenne legale, tredici quando lo fu l’aborto. I suoi genitori hanno abbracciato il clima di cambiamento, incoraggiando le figlie a perseguire ambizioni di carriera, anche se sua madre era «ossessionata dallo stile inglese. Piccoli camicioni ricamati! Il modo in cui voleva vestirmi non rappresentava ciò che ero». A dodici anni Chiuri scopre i mercati delle pulci di Roma, rovistando tra jeans vintage e giacche americane.
Alla scuola di design ha scelto di specializzarsi in accessori, una decisione che le è stata utile quando è diventata maggiorenne negli anni Novanta, ossessionata dalle It-bag e dalle scarpe da trofeo. Da Fendi e poi da Valentino, si è ritagliata una carriera di successo pur rimanendo al di sotto dei radar. Le cose sono cambiate quando, all’età di cinquantadue anni, ha fatto un grande salto sotto i riflettori accettando il lavoro da Dior. Ancora oggi mantiene un’aria di autocontrollo, con un contegno insolitamente professionale in un settore in cui l’ostentazione è un’impostazione predefinita. Chiuri parla sempre di donne, al plurale, piuttosto che di una donna. Una consumatrice che mette mano al portafogli sta, nel linguaggio saccente del femminismo mercificato, possedendo la sua bellezza, la sua sessualità, il suo potere.
«Non mi piace molto la parola empowerment», dice Chiuri. «Se vogliamo sfidare il patriarcato, le donne devono parlare di più di sorellanza e comunità. Il vero femminismo riguarda le donne che si sostengono a vicenda». Un anno dopo il suo debutto da Dior, la Chiuri ha aperto la sfilata della sua collezione Primavera 2018 con un’altra maglietta con lo slogan: “Why Have There Been No Great Women Artists?”, il titolo di un saggio fondamentale del 1971 della storica dell’arte femminista Linda Lochlin, una copia del quale era su ogni sedia. Questa volta, le parole non erano stampate su un semplice girocollo bianco, ma su una maglietta a righe bretoni con scollo a barchetta, sottolineando la giustapposizione del messaggio con lo sfondo della Settimana della Moda di Parigi, la madrepatria dello chic francese.
A questo punto, la Chiuri ha anche avviato una politica che prevede l’impiego di fotografe donne per tutti i progetti commerciali di Dior. «La gente è rimasta scioccata quando ho detto per la prima volta che volevo che fossero solo le donne a scattare per noi. Dicevano che non era possibile, che non ci sono così tante fotografe donne. Ho risposto che non è vero. Ce ne sono molte. Ma quando le case di moda vogliono scattare una campagna, chiamano sempre uomini perché lo sguardo maschile è visto come la prospettiva che conta». L’impegno di Lvmh, proprietaria di Dior, di aumentare al 50% la rappresentanza femminile nelle posizioni chiave è al 45% in tutto il gruppo e al 50% in Dior. L’azienda si è impegnata a garantire l’equità retributiva entro il 2025.