di Mario Sechi e Rita Lofano (agi.it, 25 ottobre 2020)
Sister Act. A un certo punto della serata americana, con l’inverno che comincia a picchiare, una scena da comedy: Trump è sul palco di Circleville, in Ohio, alle sue spalle compaiono tre suore, quella al centro brandisce la Bibbia, le altre due ai lati di The Donald stringono il rosario, il trio indossa la mascherina “Maga”. Dal Padre Nostro a Make America Great Again, un salto da Dio. Dubbi teologico-politici dei vostri cronisti: Ossignore e quelle tre chi sono? Di che ordine saranno? Chissà cosa ne penserà mai il Vaticano? Ma poi, sono cattoliche o appartengono a qualcuna delle tante Chiese fai da te che fioriscono in America? Hanno la veste viola, bianca e nera, pare appartengano alle “Children of Mary” di Newark, Ohio, sorelle trumpiane.
Le coreografie dei Maga rally – come abbiamo visto – sono studiate nei minimi dettagli, dalla forma del teatro, che viene allestito quasi sempre negli aeroporti (per permettere all’Air Force One di rullare dalla pista direttamente sotto il palco, o al Marine One di atterrare tra la folla, come è accaduto a The Villages, in Florida), fino alla scena che si presenta davanti e soprattutto dietro Trump quando parla. Tutto ha una sceneggiatura, un suo tempo di entrata in scena. Dunque, c’è The Donald e alle sue spalle si proietta Sister Act. Colpo di immaginario sulla Rete assicurato, #nunsfortrump compare come hashtag e vai con la discussione nella parrocchia di Internet.
Trump, “cristiano aconfessionale”
Siamo in America: se a Roma i cardinali si fanno la guerra, qui i confini della religione più che ordine sono disordine. Così in questo turno elettorale (è successo l’altro ieri, il 23 ottobre, siamo al fresco di stampa in un’intervista al Religion News Service) Trump è passato dallo status di presbiteriano a quello di “cristiano aconfessionale”, e lo ha messo nero su bianco, con una nota scritta, perché qui la faccenda del credo è una cosa seria (e non solo sul piano politico), fa parte del comportamento pubblico (quello dichiarato almeno), del prima e dopo una conversione, un cambio di confessione, un ri-pensamento religioso. Trump così “allarga” il suo credo (o lo diluisce fino a non crederci, se preferite questa lettura) e può andare in chiesa e raccogliere i voti di tutti. Parliamo di una miniera, gli Evangelici secondo il Washington Post nel 2016 hanno rappresentato un quarto dell’elettorato totale e l’81% di questo mondo ha votato per Trump.
Le suore-Maga dell’Ohio
Le tre suore-Maga dell’Ohio, dunque, sono perfette per lo scopo: Trump è il presidente prescelto dal Signore e per gli altri non c’è la Divina Provvidenza. Qualche giorno fa, sempre in campagna elettorale, la sua partecipazione a una messa domenicale a Las Vegas (gioco d’azzardo e altare, strana miscela) è stata notata per i 20 dollari di offerta fatta dal presidente-miliardario, ma la notizia sul piano politico era un’altra: la messa nella gigantesca International Church di Las Vegas, in Nevada, era la benedizione per il suo secondo mandato, i predicatori lo hanno definito l’unto del Signore che grazie allo Spirito Santo conquisterà la Casa Bianca. E attenzione, tutti quelli che lo seguiranno saranno vittoriosi nella vita. Si può sorridere finché si vuole, ma in America – e non solo, osservate le manovre politiche nei dintorni della Chiesa in Italia – questi sono voti. E il leader di quella comunità religiosa che cresce tra le slot machine, Paul Goulet, i voti li sposta come le carte del poker quando dice che Trump è un membro di quel gruppo perché ormai è già alla sua terza messa con loro. E dunque la moglie Denise Goulet profetizza che Dio garantirà a Trump “una seconda spinta”, che “sarà di nuovo presidente” e Dio le ha detto che “lui è pronto per i prossimi quattro anni”. Funziona? Siamo nel campo del mistero e per i misteri, si sa, occorre fede. In ogni caso, la International Church di Las Vegas aveva già dato la sua benedizione a Trump nel 2016 e Denise Goulet ha ricordato che la sua elezione quattro anni fa è stata la risposta alle sue preghiere per l’America.
Il Papa batte un colpo
La religione è il testo e il sottotesto di uno scenario in rapido e tumultuoso divenire. Mentre Trump diventa “a-confessionale”, il Papa risponde alle domande che giungono dal basso, dai movimenti culturali della società americana dove la Chiesa cattolica attraversa una profonda crisi, sconvolta dagli scandali sugli abusi sessuali sui minori. Così non sfugge agli osservatori politici l’importanza della nomina del primo cardinale afroamericano tra i tredici nuovi porporati annunciati dal Papa, Wilton Gregory, 72 anni, capo dell’Arcidiocesi di Washington D.C. La scelta di Francesco giunge nel pieno dell’ondata del Black Lives Matter che ha cambiato il volto della politica americana. Wilton Gregory, originario del South Side di Chicago (nero, povero, lo stesso dove è cresciuta Michelle Obama), si è convertito al cattolicesimo da teenager. È considerato un progressista. Come capo dei vescovi Usa, tra il 2001 e il 2004, ha reclamato una svolta in Vaticano per proteggere i bambini vittime degli abusi sessuali come emerso dallo scandalo rivelato dal Boston Globe nel 2002 e ricordato nel film candidato all’Oscar Spotlight. Gregory era stato nominato dal Papa a capo della Chiesa di Washington il 4 aprile 2019, non a caso lo stesso giorno dell’assassinio di Martin Luther King, ucciso a Memphis, in Tennessee, il 4 aprile 1968. Il ruolo che il Papa ha affidato a Gregory a Washington, quasi anticipando le richieste del movimento contro il razzismo, è considerato il più influente della Chiesa americana per la delicatezza e l’importanza delle relazioni con il potere politico. Tradizionalmente, l’arcivescovo di Washington ha stretti rapporti con i presidenti, i diplomatici nella capitale Usa e i leader della cultura. In fondo, anche questo fa parte del braccio di ferro tra l’amministrazione Trump (vedere alla voce Mike Pompeo e Cina) e il Vaticano. Francesco batte un colpo. Trump? Ritenta il colpaccio. La religione pesa così tanto? Sì, ma senza gli squilli di tromba degli angeli.
Il fattore religioso
La religione è il testo e il sottotesto di uno scenario in rapido e tumultuoso divenire. L’edizione americana dello Spectator dedica la sua copertina al tema del declino del fattore religioso nella politica americana, e ricorda come «alla fine del XX secolo, il 40 per cento degli americani erano frequentatori abituali della chiesa, più del doppio della percentuale britannica. Sembrava che il cristianesimo facesse parte del Dna dell’America e se gli europei non lo capivano – beh, questo era un loro problema». Nel 2020, anno elettorale, forse il più importante dal Dopoguerra, la situazione è completamente cambiata e dopo «quattro secoli di fioritura cristiana» gli americani «sono giunti alla fine. Invece di uno di quei “risvegli” che periodicamente hanno riportato in vita la loro fede, gli americani sono coinvolti in un Grande Disfacimento. Le ultime statistiche del Pew Research Center sono scioccanti. Tra il 2009 e il 2019, il numero di adulti americani che si definiscono cristiani è sceso dal 77% al 65%. Nel frattempo, il numero di atei, agnostici e che si sentono “niente in particolare” è passato dal 17 al 26 per cento. Per lo Spectator è un «declino in stile europeo», una secolarizzazione inarrestabile, così «i politici e i media sono interessati alla demografia religiosa solo una volta ogni quattro anni, quando cercano di capire come voteranno i cristiani». Ma c’è una novità, la Storia inattesa: «Questa è la prima elezione in cui i dati indicano che il cristianesimo americano sta implodendo». Forse. E in ogni caso si provano tutte le strade per convincere chi crede in Dio a credere anche nel candidato che dice di aver la strada illuminata proprio da Dio. E il presidente americano continua sempre a giurare sulla Bibbia.
Tre mosse per la volata finale
La messa in Nevada, il Sister Act in Ohio. E la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte Suprema. Tutte le pedine stanno andando a dama. Sono i capitoli alti e bassi di un romanzo che ha una trama precisa, la conquista del voto delle comunità che in America si ri-conoscono in base alla religione, da quelli che vanno in chiesa o pregano in casa in stile libero, fino ai tradizionalisti che si attendono dall’arrivo della Barrett – nell’organo più importante del sistema istituzionale americano dopo la Presidenza e il Congresso – una sterzata della Corte Suprema in una direzione ancora più conservatrice. Si apre una settimana importante per Trump, sta consolidando posizioni che peseranno sul voto del 3 novembre. Ieri una rara seduta del Senato aperta di sabato ha di fatto certificato che i numeri per la nomina della Barrett ci sono, anche la senatrice dell’Alaska Lisa Murkowski dopo la sua consueta breve dissidenza ha annunciato che voterà “sì”. Il destino gioca a dadi, oggi Trump sarà in Maine, dove corre per la rielezione l’unico dissidente Gop nel voto per la Barrett, la senatrice Susan Collins. Trump dirà qualcosa su di lei? Cercherà di affondarla? È un voto ribelle, ma non cambia l’esito finale. L’unica cosa che potrebbe cambiare è il seggio al Senato del Maine, dove per ora siede la Collins e dopo il 3 novembre si vedrà. Dunque oggi il Senato voterà per far avanzare la candidatura, che poi verrà confermata lunedì dalla votazione finale. Terza nomina di Trump alla Corte Suprema (record) e procedura tanto accelerata da essere la più veloce della storia. Un’allieva del giudice Antonin Scalia, il re degli “originalisti”, al posto di Ruth Bader Ginsburg, icona del progressismo giuridico.
Il trumpismo alla prova del voto
Anche questo è un segno dei tempi, sul piano politico in America sono i conservatori a tracciare il solco. Vinceranno anche le elezioni il 3 novembre? Trump è un caso speciale, il 2016 fu un colpo di vento improvviso, una tempesta che in quattro anni ha cambiato tutto: il suo partito repubblicano ha cancellato quel che stava ancora in piedi (male) del vecchio Gop, gli avversari interni (e i Dem, ovvio) gli rinfacciano proprio il “trumpismo” che, piaccia o meno, è nello stesso tempo la sua forza perché parla all’America profonda, quella terra di mezzo che nessun altro come Trump sa risvegliare. La base repubblicana che abbiamo visto in questi giorni nei Maga rally è al massimo dell’entusiasmo, fattore che tutti gli analisti considerano come un acceleratore del voto per Trump. Perde? La notizia per ora è che Trump, nonostante tutto quello che è successo, è ancora in campo. Un altro al suo posto sarebbe già deragliato, con le valigie pronte per uscire dalla Casa Bianca. Trump è un sottosopra in attesa di una riconferma. Ci riuscirà? Se gli elettori cercano più o meno inconsciamente la quiete e un ritorno (impossibile, ma è questione di storytelling) al “vecchio ordine” mondiale e alla pax americana, allora Biden è più rassicurante e vincerà. Ma se l’aquila che stringe negli artigli il ramoscello d’ulivo e le tredici frecce vuole difendere la sua fortezza e andare a caccia di nuovi spazi, allora la Casa Bianca sarà ancora di Trump. I sondaggi sono tutti per Joe, la piazza dice Donald. Per il resto bisogna, appunto, pregare. Vedremo presto il “The End”, siamo alle ultime immagini di questo film ad altissima tensione, ma abbiamo tutti la netta sensazione che ci saranno altri colpi di scena e colpi di coda. La messa è quasi finita. Non si scambieranno un segno di pace.