Trump o non Trump, che succede se ci mettiamo a trattare i social network da editori?

di Davide Ludovisi (wired.it, 29 maggio 2020)

Come spesso capita, Donald Trump ha sparigliato le carte in tavola. Con l’ordine esecutivo per ridurre la protezione legale dei social media rispetto ai contenuti pubblicati, è entrato a gamba tesa in un dibattito aperto da anni. Facebook, Twitter, YouTube, Instagram e gli altri dovrebbero essere considerati degli editori a tutti gli effetti? Il problema è che Trump è una figura ingombrante. Non solo è il presidente degli Stati Uniti, ma è una persona dai poteri enormi che ci ha abituati ad azioni d’impulso.

Ph. Jonathan Ernst / Reuters
Ph. Jonathan Ernst / Reuters

La decisione di voler modificare la legge americana riguardante le responsabilità dei provider, cioè i fornitori di accesso a Internet, ha infatti tutti i crismi della decisione motivata da una situazione personale. Arriva infatti dopo che Twitter ha segnalato due messaggi di Trump come notizie sostanzialmente false, invitando a un approfondimento su testate giornalistiche autorevoli. Bisognerebbe però sforzarsi per un momento di lasciare da parte Trump e le sue motivazioni e ragionare sul significato di un simile provvedimento. E anche sulle conseguenze che potrebbe avere sulla libertà di espressione on line di tutti noi.

Una legge di un’altra epoca

Quella della responsabilità dei social network, e in generale dei provider, è una vecchia storia. Negli Stati Uniti il problema venne affrontato già nel 1996, con una legge nota come Communications Decency Act. All’epoca ovviamente si parlava solo di provider e il dibattito sulla loro responsabilità si concluse con una decisione per certi versi strana. «Si stabilì un’esenzione di responsabilità. Il che è una scelta peculiare», spiega a Wired Giusella Finocchiaro, esperta di Diritto delle nuove tecnologie. «Di solito, infatti, le norme stabiliscono le responsabilità, non le mancate responsabilità».

Con la legge n. 31 del 2000 anche in Europa si legiferò sulla materia in modo analogo. L’articolo 17, che ovviamente è ancora in vigore, prevede un esonero generale della responsabilità dei provider. «Diventano responsabili solo se si inseriscono nell’ambito della comunicazione in maniera attiva», precisa Finocchiaro. «In sostanza non hanno l’obbligo di controllare preventivamente i contenuti. Ma diventano responsabili solo se sono destinatari di una decisione di un giudice, in caso di inadempimento». Per fare un esempio pratico: se un utente diffama qualcuno attraverso un post su Facebook, ne risponde solo quell’utente. Non è responsabile in solido con il social network. Cosa che, invece, avviene se un giornalista è ritenuto colpevole di diffamazione: in tal caso, ne rispondono sia il giornalista sia il direttore di testata. Così avviene finora anche negli Stati Uniti. Ma quello che si vorrebbe ora, con la Trump move, è equiparare le responsabilità dei social a quelle dei giornali.

La territorialità di Internet

Non è comunque sempre facile perseguire illeciti avvenuti on line, in un mondo sempre più connesso: di solito si fa riferimento al luogo dove un reato è avvenuto. E va da sé che Internet ha reso complicato stabilire il concetto di luogo. Tuttavia, normalmente viene considerato il Foro di competenza nel luogo in cui chi ha subìto il danno ha il proprio centro d’interessi. La diffamazione, nello specifico, per sua natura è un reato che può riguardare più ambiti geografici.

Quindi un’ordinanza come quella di Trump si applicherebbe anche da noi? La risposta breve è no. Tuttavia le conseguenze ci sarebbero, eccome. Innanzitutto creerebbe un precedente assolutamente importante, e le legislazioni nel mondo ne terrebbero conto. Certo, sono – per così dire – autonome (prendiamo per esempio il famoso Regolamento generale sulla protezione dei dati. Il Gdpr si applica in Europa, mentre negli Usa hanno altre regole), ma bisogna anche tener conto che esistono scuole di pensiero che sostengono che di fatto gli europei applichino le norme del Gdpr anche negli Stati Uniti. Non è un caso che molti servizi e piattaforme on line americane di respiro internazionale si siano adeguate.

Specularmente, nel caso di cui stiamo parlando, potrebbe avvenire l’opposto: se i social network dovessero essere ritenuti responsabili per i contenuti degli utenti, è facile pensare a un controllo più stretto su post e tweet. «Probabilmente eserciteranno un controllo maggiore su tutti, non solo in America», spiega Finocchiaro. «Ci sarebbe minore libertà nel comunicare. Per questo non credo che sia la scelta giusta pensare che la responsabilità dei social media debba essere la stessa degli organi di stampa». Effettivamente, è evidente quanto le caratteristiche dei due mondi sono diverse: le testate giornalistiche hanno dei criteri nella pubblicazione delle notizie che – almeno in teoria – seguono un decalogo preciso. Il controllo sugli articoli, per quanto una redazione possa essere prolifica, è sicuramente un lavoro limitato rispetto a quello che interesserebbe la quantità di post sui social network che viene prodotta ogni secondo.

Le notizie sui social e le responsabilità individuali

Tra social network e testate giornalistiche anche le finalità e la natura giuridica sono diverse. Eppure è innegabile che moltissima – se non la maggior parte – dell’informazione ormai venga veicolata e prodotta sui social. Fake news comprese, ovviamente. Quindi – non lo scopriamo oggi – una funzione editoriale di queste piattaforme risulta sempre più evidente. «Sia negli Stati Uniti sia in Europa il dibattito è apertissimo. La nostra legislazione risale ormai al 2000. Era nata con l’idea di far sviluppare il commercio elettronico. Nel frattempo sono passati vent’anni, il commercio elettronico si è ben che sviluppato», ci spiega Finocchiaro.

Per l’esperta la legislazione, quindi, andrebbe almeno adeguata. «Innanzitutto bisognerebbe prevedere una maggiore responsabilità degli individui che si servono delle piattaforme. Si potrebbe pensare a un anonimato di due livelli: si è anonimi rispetto al pubblico ma non rispetto al provider del servizio, che in caso di indagine può essere tenuto a rivelare l’identità. Questo porterebbe a una responsabilizzazione maggiore rispetto ai cosiddetti odiatori on line. Oggi è difficile perseguirli perché spesso godono di un’ingiusta protezione derivante proprio dall’anonimato». Tuttavia bisogna anche ricordare che è grazie all’anonimato che attivisti, soggetti minacciati o deboli, possono esprimersi liberamente on line. Anche Finocchiaro riconosce che è comunque rischioso dare in mano a organizzazioni private la responsabilità di una censura più intensa, dato che queste organizzazioni potrebbero poi comunque essere soggette a pressioni governative.

In ogni caso, Trump a parte, la direzione internazionale è di cercare di stare al passo con i tempi rispetto alla produzione delle informazioni. Anche perché la giurisprudenza è andata oltre, e questa totale mancanza di responsabilità dei social media rispetto ai contenuti non esiste già più da un pezzo. Il punto però oggi è equiparare i social media alle testate giornalistiche: un azzardo che comporterebbe più rischi che benefici.

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