di Sonia Turrini (huffingtonpost.it, 11 gennaio 2021)
Le vicende del Campidoglio del 6 gennaio, tanto prevedibili quanto sorprendenti, sono l’epilogo in una saga che non comincia nel 2016, e non comincia nemmeno con Donald Trump. Era la sera di giovedì 9 febbraio 1952, e il senatore del Wisconsin Joe McCarthy era invitato a parlare al McClure Hotel. Lo storico Jon Meacham riassume il tema del suo discorso in due parole: “American carnage”, massacro americano, le stesse parole usate nel suo discorso inaugurale dal presidente Trump. Le somiglianze fra i due non si fermano certo qui.Davanti a qualche centinaio di ospiti del McClure Hotel, McCarthy mescolò demagogia e menzogne, dichiarando di avere una lista di 205 nomi di comunisti, impiegati nel Dipartimento di Stato, al lavoro per distruggere il Paese dall’interno, con la muta connivenza del presidente Truman: una élite corrotta e antiamericana. Era nato un fenomeno, passato alla storia come McCarthyism, o maccartismo. Era qualcosa di nuovo, nella politica; era un attore, comprese le paure di molti americani e, avendo accesso ai media, sfruttò il privilegio di essere un uomo di rilievo infischiandosene delle responsabilità. Nelle parole di Meacham, «era un maestro delle false accuse, della retorica cospirazionista e della mancanza di rispetto. Sapeva distrarre il pubblico, usare la stampa e cambiare argomento, il tutto mantenendosi al centro dell’attenzione». Secondo lo storico David Oshinksy, McCarthy fu il primo a sostenere che il nemico non fosse fuori, a Mosca, ma dentro i confini nazionali, e si pose come unico possibile salvatore, in possesso di informazioni che nessun altro conosceva. Fu il primo, ma certamente, ora lo sappiamo, non l’ultimo.
Dopo quel famoso discorso del McClure Hotel, presiedendo il sottocomitato investigativo del Senato, McCarthy inaugurò una caccia al comunismo durata un paio d’anni, con l’obiettivo di purgare il Paese dalla piaga, accusando ufficiali di governo a destra e a manca sebbene non avesse alcuna evidenza o prova, se non quelle che occasionalmente fabbricava. Come Donald Trump, spaccò l’opinione pubblica, galvanizzandone una parte e orripilandone un’altra. Come The Donald, anche McCarthy era un pioniere del nuovo mezzo di comunicazione del suo tempo, la televisione. Comprese come sfruttarlo a suo vantaggio; disse al suo consigliere Roy Cohn (tenete a mente questo nome): «le persone non ricorderanno cosa diciamo sulle questioni, la nostra logica, il nostro ragionamento, i nostri fatti. Ricorderanno solo l’effetto».
Il senatore detestava la libera stampa, e la infangava ogni volta che non gli dava una copertura benevola. Come confidò off the record a un reporter, sapeva che le sue maldicenze non avrebbero ridotto i profitti di un giornale, ma che dipingendo una testata come nemica e faziosa si può togliere potere alle sue parole: «penso di poter convincere molte persone che non possono credere a quello che leggono sul giornale». La sua facciata cominciò a sgretolarsi nel 1953, quando si scagliò contro l’esercito americano, e si frantumò completamente nel 1954 durante il processo che ne seguì: un altro errore che lo accomuna all’uscente Trump, quello di inimicarsi le forze armate. Alla luce dei fatti della settimana scorsa, gli Stati Uniti avrebbero dovuto guardarsi dall’eleggere alla presidenza un uomo che, col senatore McCarthy, oltre a opinioni politiche e tempi scenici, ha condiviso anche un consigliere, l’avvocato Roy Cohn. Se solo il senatore fosse stato tra noi, per vedere che cosa accade alle istituzioni quando il suo modo di fare politica finalmente prevale, arrivando alla Casa Bianca: accade che un uomo vestito da bisonte sfonda le finestre del Parlamento credendo di salvarlo da sé stesso.
Occorre sperare che vi sia un’ultima, fondamentale, somiglianza tra McCarthy e Trump: che anche per quest’ultimo il successo politico sia una parabola di un quinquennio, che tramonta nel disonore e rimane nel vocabolario come sinonimo di malapolitica. Alcuni, tra cui il presidente Bush Jr., hanno paragonato quanto accaduto il 6 gennaio a una scena da “repubblica delle banane”. Gli Stati Uniti, tuttavia, hanno un potente alleato che distingue una democrazia da una repubblica delle banane, oggi come nel 1954: la libera stampa. Uno degli eventi che contribuirono ad allontanare definitivamente l’opinione pubblica da McCarthy fu, infatti, il discorso che il giornalista Ed Murrow tenne nel suo seguitissimo programma See it now la sera del 9 marzo 1954. Ne riporto il finale, calzante oggi come allora: «le [sue] azioni hanno causato allarme e incredulità nei nostri alleati all’estero, e dato considerevole conforto ai nostri nemici. E di chi è la colpa? Non sua, in realtà. Lui non ha creato questa situazione di paura, l’ha solo sfruttata – e piuttosto bene. Cassio aveva ragione. La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi. Buonanotte, e buona fortuna».