di Anna Ditta (tpi.it, 30 gennaio 2021)
Per quarant’anni i servizi segreti russi hanno coltivato rapporti con Donald Trump, che da presidente degli Stati Uniti sarebbe stato condizionato, nelle sue scelte, dai legami col Cremlino. A sostenerlo è Yuri Shvets, ex spia del Kgb che ha operato a Washington negli anni Ottanta ed è la principale fonte del nuovo libro del giornalista Craig Unger, intitolato American Kompromat. Secondo Shvets, Trump veniva considerato un “asset” dell’intelligence russa. “È un esempio di come le persone venivano reclutate quando erano studenti e poi arrivavano a posizioni importanti, qualcosa del genere è successa con Trump”, ha detto l’ex agente, ora 67enne, in un’intervista al Guardian. “Non c’era un grande piano di far sviluppare questo tizio che quarant’anni dopo sarebbe diventato presidente. A quel tempo i russi cercavano di reclutare come pazzi e andavano dietro a decine e decine di persone”, spiega Shvets.E aggiunge: “Trump era un obiettivo perfetto: la sua vanità, il suo narcisismo lo rendevano un target naturale che i russi hanno coltivato per oltre quarant’anni fino alla sua elezione”. Dopo aver lavorato per il Kgb usando come copertura l’incarico di corrispondente della Tass, Yuri Shvets nel 1993 ha ottenuto la cittadinanza americana. In passato ha lavorato nel settore della sicurezza privata ed è stato partner di Aleksandr Litvinenko, l’ex agente dei servizi russi assassinato a Londra nel 2006.
Il presunto “reclutamento” di Trump da parte del Kgb
Da quanto emerge dal libro di Unger, Trump attirò per la prima volta l’attenzione dei russi nel 1977, col suo matrimonio con la modella cecoslovacca Ivana Zelníčková, e divenne obiettivo di un’operazione condotta dall’intelligence cecoslovacco, in collaborazione con il Kgb. Il primo contatto da parte dei servizi russi con Trump sarebbe avvenuto tre anni dopo, quando il tycoon acquistò duecento televisori per un suo nuovo hotel di New York da Semyon Kislin, emigrato sovietico che possedeva un negozio sulla Fifth Avenue. Kislin nega di aver lavorato per l’intelligence russa, ma Shvets sostiene che fu lui a identificare Trump come giovane imprenditore in ascesa e “potenziale asset”.
I rapporti tra Trump e gli oligarchi russi
Negli anni successivi, Trump avrebbe sviluppato fiorenti rapporti con gli oligarchi russi, diventati clienti delle grandi operazioni immobiliari del suo gruppo newyorkese, alcune delle quali sarebbero state finanziate con triangolazioni su banche estere che avevano rapporti con quelle russe, arrivando addirittura a “salvare il tycoon dalla bancarotta”. Il primo viaggio in Russia di Trump e la moglie avvenne nel 1987. In quell’occasione, secondo il racconto di Shvets, alcuni agenti del Kgb avvicinarono il tycoon. “Avevano raccolto molte informazioni su di lui, sapevano che era estremamente vulnerabile dal punto di vista intellettuale e psicologico, e incline all’adulazione”, racconta l’ex spia. “Hanno finto di essere incredibilmente impressionati dalla sua personalità e di credere che sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti, un giorno”.
Trump, il Kgb e le idee su Mosca
Al suo ritorno negli Stati Uniti, Trump acquistò una pagina pubblicitaria sui principali giornali presentando un suo programma come possibile candidato alla presidenza Usa. Il tycoon criticava le posizioni di Ronald Reagan sulla Guerra Fredda, accusava il Giappone di sfruttare l’alleanza con gli Stati Uniti ed esprimeva scetticismo sulla partecipazione alla Nato, sottolineando: “l’America deve smettere di spendere per difendere Paesi che si possono difendere da soli”. Una serie di idee considerate bizzarre, che trent’anni dopo sono state tra i cardini della politica estera di Trump da presidente. “È difficile credere che qualcuno potesse scrivere una cosa del genere e questa potesse impressionare persone serie in Occidente, ma è successo e alla fine questo tizio è diventato presidente”, dice Shvets, sottolineando come l’elezione di Trump sia stata vista con gioia da Mosca.
Trump, la Russia e la corsa alla Casa Bianca
Secondo Shvets, i rapporti tra Trump e la Russia sarebbero la ragione che avrebbe spinto Mosca a sostenere il tycoon nella corsa alla Casa Bianca. Il procuratore speciale per il Russiagate, Robert Mueller, che ha concluso la sua inchiesta a marzo del 2019, non ha rinvenuto alcuna collusione fra la campagna elettorale di Trump e la Russia, ma The Moscow Project (un’iniziativa del Center for American Progress Action Fund) ha rilevato almeno 272 contatti e 38 incontri noti tra lo staff della campagna di Trump e funzionari russi.