di Francesco Palmieri (ilfoglio.it, 4 settembre 2022)
Se tra la morte di Michail Gorbaciov e il venticinquennale di quella di Diana Spencer parlate con Umberto Pizzi, sovrano dei fotografi romani, sessant’anni di mestiere e ottantacinque di età, due domande le tenete già pronte. Nel suo archivio, parzialmente on line e dichiarato “patrimonio di interesse culturale”, sia di Gorbaciov sia di Lady D ci sono tante fotografie. Ma ci sono ovviamente anche gli occhi dell’autore.
Perché un “professionista pensatore”, come Pizzi si definisce, sceglie lui come farti leggere il personaggio immortalato. Se tra le facce pari o dispari. Piuttosto, essendo saporosa come una pasta alla gricia la sua conversazione, accade che chi intervisti Pizzi ne metta a fuoco il manierismo romano (so easy) e lasci sfumato il “professionista pensatore”. Proviamo a non peccare.
Quante volte ha fotografato Gorbaciov?
«Varie volte. Emanava fiducia, da una certa luce negli occhi capivi che era una persona perbene. Parlo da compagno che è rimasto compagno ma non ha mai esaltato l’Unione Sovietica: Gorbaciov ebbe il merito di chiudere una realtà esplosiva, di por fine a un disastro perché amava davvero il suo popolo. Fu un uomo che diede una speranza. Perciò per la sua morte sono triste. Mi considero un fotografo antropologo, nel senso che studio la gente e ho sempre cercato di capire chi avessi davanti all’obiettivo».
Ha visto ancora quanta commozione c’è ricordando Lady Diana? Cosa ne dice il fotografo antropologo?
«Un giornale tedesco mi diede l’incarico, pagato benissimo, di seguirla mentre sul panfilo Britannia girava lungo l’Italia. Me la studiai profondamente e dico che visse, anche bene, la vita che voleva. Non mi sembrò una persona genuina, piuttosto una che recitava la sua parte e teneva moltissimo al denaro. Soltanto quando era in mezzo ai bambini la percepivo spontanea e davvero emozionata. Quando dopo la morte quasi la santificarono rimasi, e resto, un po’ perplesso».
Chi sono i personaggi carismatici?
«Quelli che spandono una certa luce. Per esempio Rita Levi-Montalcini. È una peculiarità che non deriva dalla suggestione. Le racconto un episodio: tanti anni fa la Montedison organizzò un gala al Teatro dell’Opera dove davvero c’era tutto il mondo, da Craxi a Pavarotti. Poi scorsi tra la folla un signore piccoletto, coi capelli bianchi e un vestito da sera che mi sembrò un po’ rimediato. Non avevo la più pallida idea di chi fosse, ma emanava quella luce lì. Allora chiesi: era Albert Sabin, lo scopritore del vaccino contro la poliomielite».
E i leader politici?
«Mi emozionava Enrico Berlinguer. Gli feci una foto famosa per cui non presi una lira perché la regalai. Un giorno lo vidi uscire dall’ospedale San Giacomo a via di Ripetta, dove era andato a trovare il suo portavoce, Antonio Tatò, e lo seguii da lontano. Arrivato a piazza Augusto Imperatore si fermò a salutare tre operai che erano in pausa, con la carriola, i panini, gli attrezzi. Fu una sequenza emozionante. Scattai con il teleobiettivo».
Fra i politici di adesso, come fotografo chi la intriga di più?
«Ho fotografato prima, seconda e terza repubblica, credo sempre con onestà. Ma adesso personaggi carismatici non ne vedo mica tanti. C’è uno sgonfiamento. La corsa alla poltrona. Vogliono tutti essere qualcosa quando invece non lo sono. Ma amano essere fotografati anche quando fingono di no».
Come nasce un buon ritratto?
«Quando entri a una festa, qualunque sia l’evento, fai prima un giro. Non cominciare a scattare come un matto. Afferra il senso dell’avvenimento, studia i personaggi, trova le accoppiate giuste. La fotografia non è quella del turista che prende lo smartphone e scatta, anche se per un colpo di fortuna può capitargli di catturare un’immagine eccezionale. La fotografia non è improvvisazione, ma il pensiero di colui che la fa. È il risultato di quel che vedi tu attraverso l’obiettivo e di quel che ha dentro la persona che fotografi, devi tirarlo fuori dagli sguardi, dai movimenti, dai vestiti. Se sei una persona vuota non fai fotografie ma ceramiche. Io le chiamo ceramiche».
Lei è stato anche autore di paparazzate fastidiose. Chi reagiva meglio?
«Per esempio Gianni Agnelli, a cui pure tre o quattro volte gliene ho fatte… ma senza mai cercare di vendergli le foto invece che ai giornali. È questione di moralità. Eppure quando lo incontravo parlavamo affabilmente. L’ultima volta lo vidi a St. Moritz con la moglie aveva una mano fasciata, perché era stato morso dal suo cane. Prima di fotografarlo chiesi se poteva togliersi gli occhiali da sci e acconsentì. Ricordo che chiacchierammo a lungo del caratteraccio di Enzo Ferrari… Insomma, questo lavoro t’insegna come trattare con la gente. Con qualcuno è più facile: quando incontravo Giulio Andreotti s’informava sempre del mio lavoro con tante domande. Non si emozionava mai, ma era curioso».
Ma “paparazzo” si può dire?
«Se vuole, però è brutto. Come se dicessi che lei è un giornalaio».
Chi avrebbe voluto fotografare?
«Che Guevara. Mi sarebbe piaciuto seguirlo in Bolivia. L’ho premesso: sono un compagno».