di Guia Soncini (linkiesta.it, 20 novembre 2024)
Formiamo subito due file ordinate: in una quelli che ritengono che il ruolo insuperabile interpretato da Tom Cruise sia quello in Tropic Thunder, in un’altra chi pensa che il Cruise più sfavillante sia quello di Magnolia. (Questo articolo non prevede che siate qui a perder tempo non avendo visto o Magnolia o Tropic Thunder: sono tutti e due su Sky, andate a procurarvi una cultura generale invece di stare sull’Internet).
L’anno prossimo, se tutto va come le due scarne righe fin qui note fanno sperare, le due file convoglieranno in una nella quale ci troveremo tutti quanti convinti che il Cruise migliore sia quello di Judy. Judy è il prossimo film di Alejandro González Iñárritu, uno che, a seconda di quali siano le vostre priorità, può essere classificato come il regista di Birdman (capolavoro) o il regista di The Revenant (quello in cui DiCaprio svuotava una carcassa di cavallo per dormirci dentro) o il regista il cui cognome è più complicato da accentare e più fa bestemmiare chi fa i giornali allorché costretto a citarlo.
Judy si sta cominciando a girare in Inghilterra, dove Cruise si è già da qualche anno trasferito, e ha dentro attori stupendi, da Sandra Hüller a John Goodman. Soprattutto, della trama di Judy si sanno finora solo queste due righe: l’uomo più potente del mondo s’imbarca in una frenetica missione per provare d’essere il salvatore dell’umanità, prima che il disastro da lui scatenato distrugga tutto. Che cos’è il genio, chiedeva quella vecchia commedia italiana. È cominciare a girare un attimo dopo le elezioni americane un film scritto due anni fa in cui avevi già previsto Elon Musk.
Chi glielo fa fare, a Elon Musk, di farsi fotografare con Donald Trump e in mano i cartocci di McDonald’s, lui che è certamente più sveglio del Donald, certamente sveglio abbastanza da sapere che il punto non è quello che hanno articolato venerdì Bill Maher e i suoi ospiti – sappiamo che hamburger e patatine fanno male, ma sarebbe sciocco negare che siano deliziosi – ma è un punto molto più importante: ti puoi permettere un aereo privato e non ti puoi permettere Shake Shack? Giri in aereo privato il Paese con le catene di hamburger più buone che ci siano, e ordini il tuo asporto alla catena dove vanno solo i disperati che l’hamburger da dieci dollari non possono permetterselo? A che scopo? Certo non a quello di dire «sono uno di voi»: mica ti stai fotografando sul Greyhound.
Il punto non è l’essere elitari e mangiare solo cose comprate da Eataly (sì, insomma: l’elitarismo come può essere percepito nell’Ohio), contrapposto all’hamburger e patatine dell’americano vero, quello che preferisce il baseball al Lago dei cigni, la birra allo Chardonnay, la figa alla fluidità. Il punto è la dissonanza cognitiva tra il viaggiare il più comodi possibile e il mangiare gli hamburger più cattivi che si trovino sul mercato (il pollo fritto no, al pollo fritto di McDonald’s riconosco un’irresistibilità, e in effetti Musk nella foto in posa aveva sul vassoio il cartoccio di McNuggets, mica quella schifezza di BigMac esibito dal titolare del verme nel cervello).
Chi glielo fa fare, a Elon Musk, di ingarellarsi con uno molto meno ricco di lui a chi è il troll più grosso, a chi più fa dire ai liberal che questi social signora mia son diventati dei posti impresentabili, a chi più ci fa patire ed épater, a chi più scandalizza i borghesi più piccoli e i radical più chic? C’entra davvero il figlio divenuto figlia, quella Vivian che prima era Xavier e che ha fatto dire al padre che suo figlio era morto ucciso dalla mentalità woke, e che avrebbe spostato il quartier generale del fu Twitter in Texas perché la California, con le sue leggi che permettevano alle scuole di tenere nascosta la transizione di genere degli allievi alle famiglie, non era più un posto per persone perbene?
Sarebbe, già così, una storia assai cinematografica: il miliardario che giura di sconfiggere la religione della transessualità e per fare ciò si spinge persino a mangiare McDonald’s, a frequentare uno meno miliardario di lui e meno geniale, ma altrettanto goffo e poco fotogenico; tutto questo solo perché uno dei suoi cento figli ha fatto quel che fanno tanti ragazzini che van dietro alle mode: decidere che sei nato maschio e invece sei femmina, o viceversa. Ma potrebbe essere ancora meglio se, come dicono in molti, c’entrasse Neuralink, una delle invenzioni di Musk, bisognosa di permessi governativi e che quindi può prosperare più facilmente se Musk ha un ruolo istituzionale.
Neuralink ha grandi ambizioni benevole (le idee di Musk si presentano sempre ricche di ambizioni benevole: sennò che film con Tom Cruise sarebbe): vuole metterci un chip nel cervello in modo che, se tetraplegici, possiamo con la sola forza del pensiero cambiare canale al televisore o simili.
Non è questo il momento in cui vi svelo che io sono convinta che gli algoritmi ci leggano già nel pensiero, e che le pubblicità che fanno dire a molti che ci origliano – parlavo con mia cognata di arrosticini e guarda che ora me ne compare la réclame –, quelle pubblicità lì a me appaiono di cose alle quali ho solo pensato e di cui non ho parlato a nessuno, scritto a nessuno, detto neanche sottovoce a nessuno. Ho solo pensato alla Sachertorte, ed ecco che mi compare la pubblicità d’una pasticceria: è ovvio che l’algoritmo mi legge già nella mente, e il chip di Neuralink è già nel mio cervello a mia insaputa.
Non è questo il momento in cui vi offro l’opportunità di darmi della paranoica picchiatella, perché è invece il momento in cui vorrei vi concentraste sulla specifica tipologia di picchiatello che crede ci vogliano iniettare i microchip. Quelli contrari ai vaccini ma persino ai menu dei ristoranti da visualizzare tramite codice QR. Quelli convinti che il mondo sia un grande complotto per spiarci, controllarci, teleguidarci. Quelli che sono, ohibò, la perfetta incarnazione di trumpismo e kennedismo (inteso come quello col verme nel cervello: toccherà trovare un escamotage linguistico per distinguere i riferimenti al Kennedy vivo da quelli ai suoi defunti antenati).
Hanno votato Trump perché Trump li liberasse dagli obblighi vaccinali, dal fluoro nell’acqua, da tutto ciò che li faceva sentire spiati e controllati da organismi governativi invadenti. E si ritrovano che, al governo, c’è uno per cui i chip da iniettarti nel cervello non sono un orizzonte paranoide e fantascientifico: sono un dichiarato progetto industriale. Non ho letto la sceneggiatura di Iñárritu, ma temo che faticherà a essere all’altezza d’una realtà che forse l’ha già superata con gli abbaglianti accesi.
Per fortuna c’è Tom, che è come già lo vedessi: più gradasso di Elon, più troll di Elon, e con hamburger di filetto al posto del McDonald’s. Cesso come il Tom di Tropic Thunder, carismatico come il Tom di Magnolia, e cattivissimo sé come i cattivissimi sconfitti dal Tom di Mission: Impossible. Chissà Elon, quando si vede sullo schermo: bisognerà aprire le finestre per far uscire l’ego. Chissà il Donald, porello: primo caso di presidente degli Stati Uniti ucciso non da un attentato ma dall’invidia.