di Paolo Mossetti (wired.it, 22 giugno 2020)
Tenendo fede al suo stile, il presidente degli Stati Uniti ce l’aveva messa tutta per fare del suo ritorno in campo un momento di tensione: oltre alle parole incendiarie delle scorse settimane sulle manifestazioni contro il razzismo, c’era stata la scelta della data per il primo comizio dall’inizio della crisi da Coronavirus, e cioè il 19 giugno, che era sembrato uno sfregio a Black Lives Matter e agli afroamericani: proprio il Juneteenth, ovvero il giorno che commemora la liberazione degli schiavi dopo la Guerra Civile, e proprio a Tulsa, in Oklahoma, dove nel 1921 una folla di suprematisti bianchi aveva massacrato dozzine di neri nel quartiere di Greenwood.
Troppe polemiche, comunque, e così l’evento è stato spostato al 20, il giorno seguente. Brad Parscale, il manager della campagna elettorale di Donald Trump, aveva annunciato raggiante che per la convention di Tulsa erano arrivate un milione di prenotazioni virtuali, nonostante i contagiati dal virus fossero in sensibile aumento in tutto lo Stato e ai partecipanti al convegno non fosse richiesto di mantenere il distanziamento fisico né di indossare mascherine. Di fronte a una platea che – a giudicare dalle magliette – sembrava ancora ossessionata da Hillary Clinton più che da Joe Biden, il candidato dei Dem alla Casa Bianca, Trump ha tenuto fede alle promesse, incensando i suoi devoti e deridendo gli avversari in quanto “anti-americani”. Ha annunciato di aver ordinato un rallentamento dei tamponi, perché altrimenti i casi positivi rischierebbero – ha detto – di andare fuori controllo e ha bevuto un bicchier d’acqua tra le ovazioni della folla (dopo essere stato criticato di recente perché non era riuscito a farlo con una mano sola). Sembrava la serata perfetta per l’inizio della riscossa, insomma, dopo mesi a dir poco complicati. E invece.
E invece, come non gli era mai successo prima, Trump non è neanche riuscito a riempire l’arena indoor da 19mila posti: la parte superiore delle tribune era vuota. Un flop, ammesso anche dai Repubblicani, che l’ha costretto ad annullare il discorso programmato su un grande palco allestito all’esterno, predisposto per quelli che non ce l’avrebbero dovuta fare a entrare. L’episodio ha del sorprendente, se si considera che l’Oklahoma è uno degli Stati americani più conservatori e un territorio chiave della base populista del presidente in vista del voto di novembre.
Fattore peculiare, secondo diverse testate tra i principali responsabili dell’accaduto ci sarebbero nientemeno che i giovanissimi utenti di TikTok – la piattaforma social più in voga al momento tra la Generazione Z – che avrebbero fatto incetta di prenotazioni (gratuite) per l’evento, scegliendo poi di non presentarsi. Un’azione per boicottare colui che viene segnalato da molte di quelle stesse piattaforme social come “incitatore all’odio”, coordinata da adolescenti lontani dalla politica istituzionale e all’insaputa dei genitori (che ne avrebbero poi scritto orgogliosi sui social ormai “anziani” come Facebook o Twitter): così gli oltre 100mila partecipanti attesi al Bank of Oklahoma Center – nuovo di zecca – sarebbero diventati meno di un quinto, con gli organizzatori furiosi e i giornali anti-Trump entusiasti per questo scacco matto al re.
Cosa si sa, per ora
È certo che molti utenti di TikTok, nei giorni antecedenti al comizio di Tulsa, hanno iniziato a pubblicare video in cui confessavano con toni ammiccanti di essersi iscritti all’evento, invitando altri follower a fare altrettanto. Post simili su Instagram e Twitter hanno registrato migliaia di like. All’indomani dello scherzo, mentre questi messaggi sobillatori sono spariti per non lasciare traccia, diversi giornalisti autenticati col bollino blu hanno riferito di figli adolescenti che si sarebbero uniti a quest’azione di trolling.
C’è però un fatto da precisare, su quanto successo con TikTok a Tulsa. I biglietti prenotati dagli utenti, essendo gratuiti e illimitati, non hanno impedito a nessuno di entrare fisicamente nell’arena: sono soltanto un sistema che gli organizzatori delle campagne usano per tastare il polso delle folle da aspettarsi all’evento. Secondo Politico, al quartier generale di Trump hanno fatto sapere di aver già scremato le prenotazioni da quelle giudicate false. Eppure qualcosa è andato storto, molto storto.
Un presunto ruolo decisivo nella campagna di disturbo l’avrebbero giocato anche gli ascoltatori del pop sudcoreano: una vera forza sui social network – soltanto l’anno scorso hanno postato oltre sei miliardi di tweet –, con una lunga storia di blitz virtuali a favore della giustizia sociale. All’inizio del mese, ad esempio, i fan del K-pop hanno fatto proprie le battaglie degli antirazzisti militanti, annegando di meme slogan di destra come “White Lives Matter” e altri hashtag ultra-conservatori. È vero anche che per ora i dati certi sull’efficacia di questa azione collettiva non esistono, ma di certo un qualche impatto c’è stato.
Tra i vip della politica che hanno rivendicato apertamente l’offensiva ci sono esponenti dell’ala più di sinistra e modernista dei Democratici. Uno dei primi video di TikTok che invitava a prenotare i biglietti per il comizio e lasciare Trump «in piedi da solo sul palco» è stato realizzato dalla 51enne Mary Jo Laupp, attivista dell’Iowa inferocita per la scelta di tenere l’appuntamento di Tulsa il Juneteenth A rendere omaggio all’esercito degli zoomer c’è stata anche la 31enne Alexandria Ocasio-Cortez, deputata di New York della corrente socialista dei Dem: «Ti sei appena beccato una sberla dagli adolescenti su TikTok», ha twittato la congresswoman al presidente.
TikTok è un avversario politico?
Nel frattempo, nel Congresso degli Stati Uniti si agita la paura per una app che tiene incollati allo schermo i ragazzini e forse riesce pure a mandare in malora un evento politico. Fanno paura i numeri della sua crescita, della sua penetrazione, soprattutto perché si legano a un altro dato essenziale: TikTok è di proprietà della società cinese ByteDance, che ha raggiunto ormai una valutazione di 100 miliardi di dollari. La conquista del mercato occidentale diventa anche una questione geopolitica: cosa potrebbe succedere se tra i partecipanti a scherzi del genere si dovessero introdurre anche troll di Pechino, di Mosca, e chi più ne ha più ne metta?
Per quanto, è bene dirlo, i repubblicani trumpiani respingano categoricamente l’ipotesi che le cose siano andate così. Parscale ha detto che i troll di sinistra «non sanno di cosa stanno parlando o come funzionano i nostri comizi», perché in realtà, come si accennava poc’anzi, ogni partecipante sarebbe stato contattato al cellulare dopo un’accurata cernita di iscrizioni pretestuose o con numeri falsi o da località sospette, e che il vero deterrente a una mancata partecipazione di massa sarebbe stato «il timore di proteste violente». Un aspetto che troverebbe conferma nell’assenza di famiglie, solitamente presenti ai comizi del presidente.
Forse, più semplicemente, c’è da credere allo spirito di conservazione dei trumpiani. In un Paese che ha una ventina di Stati dove la curva dei contagi non si è mai abbassata, solo il 45 per cento dei Repubblicani pensa che andare a un comizio sia una buona idea, e solo il 23 per cento ha un’opinione negativa di chi indossa la mascherina (lo riporta un sondaggio di Fox). Insomma, i boomer avranno anche simpatia per Trump ma non sono legati a lui da un patto suicida. L’opposizione progressista forse farebbe bene a mobilitare i giovani per l’unico evento che conta, le elezioni di novembre. La loro astensione è stata tra le cause principali di due grandi batoste a livello globale: la Brexit e, per l’appunto, le presidenziali di quattro anni fa.