di Ezio Azzollini (esquire.com, 28 maggio 2024)
Aspettare cinquantacinque anni una finale, poterla giocare in casa, festeggiarla per ore ancor prima di giocarla e alla fine perderla all’ultimo calcio di rigore: cosa può mai esserci di peggio? Keep Calm, se Edward Aloysius Murphy ci ha insegnato qualcosa è che c’è sempre un modo in cui possa andar peggio. The Final. Attacco a Wembley, il documentario di Rob Miller e Kwabena Oppong disponibile su Netflix, è la storia di una giornata storta in tutto e per tutto, tra concomitanze sfortunate, errori di valutazione in campo e fuori, fiumi di birra, preghiere al vento e anche botte da orbi.
Infine, il peggio che l’essere umano possa tirar fuori, molto più di un calcio di rigore fuori misura. Da questa parte, la metà del cielo azzurra che ha alzato una coppa a quindici anni dal mondiale tedesco e che aspettava un trionfo europeo dal Sessantotto, nel clima di celebrazione, festa e anche qualche polemica (chi ricorda il dibattito sull’opportunità del corteo sul pullman scoperto richiesto dai giocatori in piena pandemia?), è ovviamente passato in secondo piano tutto il resto. Ovvero il tema della sicurezza, di tutto ciò che è avvenuto prima e durante, fuori e dentro lo stadio, del piano per fronteggiare un afflusso di tifosi (e non) sottostimato, delle scelte sbagliate o fuori tempo massimo. Ovvero tutto quello che a distanza di quasi tre anni dalla finale di Euro 2020, poi nei fatti Euro 2021, mette in luce il docufilm inglese.
Da It’s coming home a It’s coming Rome è stato un attimo, centoventi minuti più rigori. Ma è stato un attimo lunghissimo, interminabile per chi a Wembley, l’11 luglio 2021, si è occupato delle misure di sicurezza. Tanto che in uno dei passaggi più coinvolgenti del documentario c’è il doloroso paradosso raccontato da uno dei dirigenti del servizio d’ordine: augurarsi che l’Inghilterra perdesse per evitare il disastro completo, un cocktail tra ebbrezza ed euforia che sarebbe stato probabilmente micidiale. È un miracolo che nessuno sia morto è il concetto che viene fuori più volte dal contesto apocalittico di quel giorno londinese, imprevisto ma probabilmente non imprevedibile.
Wembley Way strapiena di tifosi inglesi già dal mattino, per la stragrande maggioranza privi di biglietto, attesi in centro e radunatisi invece fuori dallo stadio a bere e cantare. L’accesso praticamente impossibile a chi invece il biglietto ce l’ha, ma si trova davanti una barriera di persone vivace e invalicabile. La circostanza unica nella storia del calcio di decine di migliaia di posti liberi in una finale continentale a causa della capienza ridotta per le norme anti-Covid, che, nella testa di chi è arrivato a Londra intenzionato a entrare comunque, gli garantisce tantissimo spazio a disposizione all’interno dell’impianto, una volta che avrà forzato l’ingresso. Tra ingenuità clamorose, coincidenze logistiche e scherzi della storia e dell’alcol, è una tempesta perfetta.
I numeri, alla fine, parleranno di circa seimila persone fuori dallo stadio senza biglietto per la partita. Alcuni per il gusto di esserci all’evento che permetterà all’Inghilterra, nessuno ne dubita, di alzare una coppa dopo più di mezzo secolo. Molti altri con l’idea di entrare, in qualsiasi modo. Tra le testimonianze di chi deve garantire l’incolumità dei tifosi e degli steward, di chi vorrebbe assistere alla partita e tifare Italia, di giornalisti e tifosi inglesi, anche quella (per certi versi la più interessante di tutte) di chi come missione ha soltanto quella di assistere alla partita a qualsiasi costo, anche senza tagliando. Bottiglie di vetro che volano sulle teste, barriere di prefiltraggio debolucce e anacronistiche che cedono, personale di sicurezza in schiacciante inferiorità numerica che è costretto a cedere anch’esso, a correre a tappare le falle che si aprono lungo il perimetro dello stadio (lunghissimo, un chilometro), tornelli chiusi nel mezzo dell’emergenza con l’effetto di bloccare fuori, inferocito, chi avrebbe diritto a entrare.
Le immagini e le atmosfere sono quelle di uno scenario di guerriglia, e nel bilancio avrebbe realmente potuto essere una tragedia. Ma, anche senza morti, la notte inglese del “liberi tutti” restituisce il senso di una sconfitta più profonda che un 4-3 ai calci di rigore. Non ultima la piaga strisciante del razzismo, persino nella Capitale più cosmopolita d’Europa, con un sindaco musulmano di origine pachistana che pochi giorni fa è stato rieletto al terzo mandato, espressione virtuosa delle contraddizioni di un Paese in cui evidentemente tutto va bene finché tutto va bene.
A inizio partita i ventidue giocatori in campo si erano inginocchiati per il Black Lives Matter: finisce che i tre rigoristi di colore della Nazionale di Southgate sbagliano e, come racconta il film, l’uscita dallo stadio per i tifosi con lo stesso colore di pelle, tra occhiatacce e qualche parola di troppo, è tra il disagevole e l’inquietante. Va ancora peggio, ovviamente, sui social, dove Rashford, Sancho e Saka (diciannove anni, non proprio un’ideona del c.t. inglese) finiscono nel mirino di una valanga di tifosi.
A Manchester viene vandalizzato il murales rappresentante il giocatore dello United, attivo nel sociale proprio in quel quartiere, uno sfregio cui la comunità civile della città reagisce con sdegno e con un’ondata di solidarietà. Luci nella notte più incredibile e orribile per l’Inghilterra, nel calcio ma non soltanto. «Dove sono finite le tanto decantate qualità inglesi di fair play, rispetto e decenza?» scrisse Libération Oltremanica, il giorno dopo. Quel giorno, Londra e l’Inghilterra avevano già cominciato a ricostruire dalle macerie di un’immagine andata in frantumi in una notte: una partita più solitaria da giocare nel silenzio, senza gente fuori a cantare e a volerne far parte a ogni costo.