di Gabriele Niola (esquire.com, 24 maggio 2024)
Questa è la storia di un uomo che impara a costruirsi la realtà che preferisce e di come questa strategia mistificatoria lo porti a conquistare i suoi obiettivi, nella New York a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Donald Trump, quando lo incontriamo, è il figlio di un imprenditore di successo che cerca di seguire le orme del padre, ma nel campo immobiliare. New York è una città indebitata, sporca, pericolosa e in piena crisi. Non è il posto dove costruire immobili di lusso.
Ma Donald ci vuole riuscire, nonostante affermi di essere perseguitato dal dipartimento di Giustizia. Come tutti i protagonisti dei film ha un sogno e qualcosa che gli impedisce di raggiungerlo, nonostante gli sforzi (nessuno vuole dargli i soldi per far partire il progetto). E come nei film arriverà un mentore a insegnargli come fare a diventare un vincente.
Ali Abbasi (già regista del bellissimo Holy Spider) trasforma il giovane Donald Trump in un personaggio da film hollywoodiano, lo tratta come lui stesso si percepirebbe, come l’espressione più pura del “sogno americano”, dell’uomo che si è fatto da sé, mentre racconta la sua mala educacion. Cioè come l’avvocato Roy Cohn, uomo spietato e senza scrupoli, abbia visto in lui qualcuno che era conveniente prendere sotto la propria ala e gli abbia insegnato le tre regole per essere un vincente:
- Attacca, attacca, attacca. Se qualcuno ti accusa, tu attaccalo.
- Non ammettere mai niente.
- Non riconoscere mai una sconfitta.
Sono regole per mistificare la realtà, per propagandarsi come un vincitore, mentire e sovvertire le cose come stanno e infine riuscire a farla franca facendo quello che si vuole. Questa è la storia della formazione di Donald Trump filmata come si filmerebbe la nascita del un cattivo di un film, una persona in fondo normale (per quanto non immacolata) all’inizio, dotata anche di sentimenti positivi, che lungo il film raggiunge il successo rinunciando alla propria anima e finendo a disprezzare anche quelli che erano i suoi affetti. E proprio per questo, per questo schematismo ricercato, The Apprentice è meno forte e meno convincente di quello che vorrebbe essere. Troppo ingenuo è Trump all’inizio e troppo malvagio diventa in poco tempo e senza delle chiare ragioni. Certo il successo, come lo definisce lui, gli dà alla testa, ma non si capisce come mai debba mortificare anche i sentimenti che aveva.
Molto più interessante allora come The Apprentice usi la storia della nascita del Trump affarista spietato per raccontare quel momento in cui un certo tipo di mentalità da avvocati senza morale (per l’appunto, le tre regole) è stata traghettata nel mondo degli affari. Quando il capitalismo è diventato il capitalismo esasperato dei nostri anni, in cui nulla conta più. Trump non paga le persone, non finisce quello che ha iniziato e non mantiene mai niente di quello che promette, fa qualsiasi cosa solo per le apparenze. In uno dei momenti più significativi si vede un quadro nella sua nuova grande villa, uno che lo ritrae ma in cui gli manca una gamba perché il pittore non è stato pagato e l’ha lasciato incompleto. Nondimeno lui lo ha appeso, perché non interessa più il risultato, solo l’autoesaltazione.
Filmato con i colori e la qualità delle produzioni televisive, con quel tipo di sfarzo cafone, interpretato con grande moderazione da Sebastian Stan ma soprattutto sorretto dalla sua spalla, Jeremy Strong nei panni dell’avvocato Roy Cohn, The Apprentice macera nelle convenzioni del suo genere, quello della scalata e della perdita dell’innocenza, non riuscendo sempre a cucire questa storia addosso al suo soggetto. È molto più interessante e attraente quando mostra come la proposta di matrimonio di Trump alla moglie Ivana venga fatta come una trattativa per una fusione, come anche i sentimenti siano merce, siano legati ai soldi e vengano risolti con un accordo che lascia entrambi soddisfatti.