di Giacomo Papi (ilpost.it, 23 novembre 2022)
In un giorno imprecisato di inizio anni Ottanta il signor Hiroshi Ueda, oscuro impiegato dell’allora potentissima azienda giapponese di elettronica e fotocamere Minolta, portò la famiglia in vacanza a Parigi. Andarono al Louvre, naturalmente, e lì Ueda domandò a un ragazzo di passaggio il favore di scattargli una foto ricordo con la moglie e i due figli.
Il ragazzo accettò, ma non appena tutti si furono messi in posa con i loro smaglianti sorrisi, cominciò a correre dileguandosi in un baleno tra le gallerie, insieme alla macchina fotografica. Qualche anno dopo, nel 1983, il signor Ueda depositò il brevetto del bastone da selfie, che per quasi trent’anni rimase un bizzarro gadget per giapponesi. Le vendite esplosero a partire dal 2010, quando Apple lanciò l’iPhone4, il primo telefonino di massa dotato di doppia telecamera della storia (il primo in assoluto era stato lo Z1010 di Sony Ericsson nel 2004). In apparenza era un aggiornamento, una piccola miglioria tecnologica. Invece l’obbiettivo bifronte avrebbe rivoluzionato il modo in cui l’umanità percepisce sé stessa e si mette in scena per gli altri.
La possibilità di rivolgere l’obbiettivo verso sé stessi affermò, per la prima volta, che lo spettacolo non è soltanto il mondo esterno ma ognuno di noi, e che esiste un diritto a mettersi in scena e a impedire che lo facciano gli altri. È stato grazie – o per colpa – del doppio obbiettivo se abbiamo iniziato a posare perfino davanti a noi stessi e se abbiamo acquisito la consapevolezza di possedere un’immagine e di doverla governare. Con l’avvento del selfie la fotografia ha cessato di essere un istante catturato da chi guarda per diventare una rappresentazione di chi si mostra. Il doppio obbiettivo, cioè, ha ristrutturato e sfumato il confine tra chi osserva e chi è osservato, trasformando il soggetto in oggetto, lo spettatore in spettacolo. La tecnologia naturalmente ubbidiva a movimenti storici profondi – a bisogni e cambiamenti culturali, sociali, economici – che insieme concorrevano a inaugurare quella che potremmo chiamare “epoca del Selfismo” da un fenomeno che ben presto dai telefonini e dai social network sarebbe dilagato a ogni campo della vita umana, letteratura compresa. In questo numero di Sotto il vulcano tentiamo di tracciarne problemi e contorni.
Definiamo Selfismo il movimento culturale che fonda sull’io e sulla sua rappresentazione pubblica, non soltanto il racconto del mondo, ma anche la possibilità di vederlo, interpretarlo e conoscerlo. Il soggetto, che il Novecento sembrava aver consegnato alla dissoluzione e il postmoderno a un’esplosione di percezioni, pratiche e pensieri, a partire dal Duemila si è ripreso la scena. Mezzo secolo dopo “la morte del soggetto” decretata da Michel Foucault nel 1966 in Le parole e le cose, ci ritroviamo immersi in un’epoca in cui l’io è più vivo che mai, unico simulacro sopravvissuto e ancora possibile per le tecnologie digitali.
Ma se la narrazione dei social è fondata sul soggetto e sulla sua rappresentazione, negli ultimi vent’anni questo processo è diventato evidente anche in letteratura, dove il racconto autobiografico dilaga ed è diventato culturalmente egemonico rispetto alla narrativa di pura invenzione. L’autobiografismo, o autofictionismo che sia, c’è sempre stato e comprende libri sommi e libri infimi: tra À la recherche du temps perdu di Marcel Proust e il libro del più scarso dei calciatori c’è di tutto. Non si tratta, quindi, del valore delle opere selfiste, ma della pretesa che le sorregge e giustifica, e dell’aura di cui sono ammantate. Ma può anche darsi che il ricorso alla prima persona sia un tentativo di rispondere all’angoscia provocata dalla dissoluzione delle religioni e delle ideologie, e delle strutture familiari, sociali e di classe, intorno a cui l’io era strutturato. Di sondare, cioè, ricostruendolo nella narrazione, il mistero di qualcosa che viene a mancare. La rappresentazione e la narrazione di sé ricostituirebbero, cioè, l’unità di un io andato in frantumi, senza più contesto e continuità (come nel poemetto di Aldo Nove qui pubblicato), i cui gesti e interessi vengono addirittura macinati dal mercato in miriadi di cookies che sono rivenduti, sotto forma di pubblicità, a chi vuole ottenerne l’attenzione (e il denaro).
La resistenza a questa dissoluzione e lo sforzo di opporsi potrebbero essere, per esempio, una delle motivazioni del Nobel a una grande scrittrice come Annie Ernaux che, scavando nella propria vita, è riuscita a narrare la verità del suo tempo e, insieme, il suo sfilacciarsi e svanire. Ma un profondo bisogno di io potrebbe essere alla base anche della fortuna di altri scrittori straordinari, come Emmanuel Carrère, Philip Roth o Karl Ove Knausgård (che contribuisce al numero con una dolorosissima e acuminata riflessione sulla frustrazione e sull’aggressività che sono sottese al bisogno di essere visti). Il racconto dell’io risponderebbe, cioè, a una precisa richiesta del pubblico (il che non spiegherebbe, però, il motivo per cui in genere in classifica ci vanno libri di invenzione e perché trionfano le serie televisive).
Il fatto, però, che scrivere di sé oggi sembri più onesto e più “vero” che inventare storie dal nulla ha conseguenze sul nostro modo di concepire noi stessi e rivela qualcosa di quello che stiamo diventando, perché mette l’autore in competizione con l’opera (su questo conflitto scherza Silvia Ziche). La sensazione, cioè, è che si assista – spesso – a una programmatica inversione dei mezzi e dei fini: se nell’autobiografismo tradizionale la notorietà del personaggio dello scrittore costituiva uno degli strumenti per affermare la verità dell’opera, per buona parte dell’autofiction contemporanea l’opera sembra uno strumento per affermare il personaggio pubblico dell’autore e accrescerne la fama.
Quello che ci stiamo chiedendo, insomma, è se gli scrittori non si stiano trasformando in influencer e i lettori in follower, e soprattutto se l’interesse per la letteratura non tenda pericolosamente a coincidere con quello per il gossip, con la voglia di sapere i fatti degli altri, dal momento che il patto che sempre più spesso lega chi scrive a chi racconta è che gli eventi narrati siano stati realmente vissuti. Si dirà: si racconta la propria storia perché la si conosce bene e il soggetto è un argomento degno come qualsiasi altro (è questa, per esempio, la conclusione del racconto di Chiara Gamberale).
Inoltre, la personalità dell’autore, perfino il suo costruirsi come un personaggio pubblico, è sempre stato importante per veicolare un libro. Pensate a Charles Baudelaire, a Oscar Wilde, a Truman Capote o a Djuna Barnes. Ed è vero, soprattutto in Italia, dove esiste una tradizione plurisecolare di scrittori la cui opera è stata anche la vita: Giacomo Casanova, Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Gabriele D’Annunzio, Curzio Malaparte – per arrivare fino a Pier Paolo Pasolini, a Oriana Fallaci e, perfino, a Roberto Saviano – intrecciano biografia e opera, sfumandole l’una nell’altra, fino a renderle indistinguibili (il narcisismo di scrittori e scrittrici è il tema dell’articolo di Mariarosa Mancuso). Ma si tratta sempre, per una ragione o per l’altra, di vite eccezionali, eroiche, in cui si rischia qualcosa. Il Selfismo si distingue, invece, perché tende a mettere in scena esistenze comuni, tutt’al più inconsuete, modellate in modo che il maggior numero possibile di persone possa riconoscersi in esse. La novità storica del Selfismo, il suo tratto contemporaneo, cioè, consiste proprio nell’inseguire la medietà esemplare invece dell’eccezionalità, nella convinzione che il pubblico abbia bisogno di riconoscersi e specchiarsi, non di ispirarsi.
Liquidare questo processo come narcisismo sarebbe ingeneroso (anche se perfino la morte altrui diventa, sempre più spesso, un’occasione per parlare di sé: ne scrive Michele Serra). Il culto della personalità, la propria, è certamente anche una risposta a una frattura lancinante della contemporaneità, quella tra individuo e società, che l’avvento del digitale ha acuito (sull’impatto del digitale sul sé e sui dolori di questa trasformazione, si possono leggere due saggi del neuroscienziato Vittorio Gallese e dello psichiatra Vittorio Lingiardi, oltre a un racconto di Bruce Sterling).
C’è poi il fatto che mettersi in posa non è mai un atto libero, ma risponde all’ideologia e all’estetica storicamente dominanti e si attua attraverso una precisa grammatica di gesti, anche questa socialmente imposta. L’obbligo di apparire felici sui social – e spesso infelici nei romanzi – è l’esito di un processo secolare e una precisa funzione del mercato, che ha conseguenze sulle nostre emozioni e sulle nostre relazioni, sulla politica nel senso più ampio e più tecnico del termine (Filippo Ceccarelli ripercorre qui la storia dell’esibizionismo dei politici italiani, sempre più persone di spettacolo, e Giada Messetti spiega come sia diverso, in Cina, il senso del pudore).
Perfino il sorriso, che come sapevano i signori Ueda al Louvre coincide con l’espressione sociale del sé, è un obbligo recente. In The Smile Revolution in 18th-century Paris di Colin Jones (Oxford University Press, 2014) si sostiene che inizi con il dipinto Autoritratto con la figlia Jean-Lucie di Élisabeth Vigée Le Brun, che fu esposto e fece scandalo al Salon del 1787. Fino ad allora sorridere era considerato un segno di stupidità, maleducazione o pazzia, o peggio un gesto di superiorità (anche perché le bocche erano un disastro: i denti mancavano o erano marci, e l’alitosi imperava). Per Jones il sorriso è «un comportamento creato fuori dalla corte che si sviluppò nella sfera pubblica di Parigi, nei café, nei boulevard e nei salons, come segno di una nuova società, più ugualitaria».
È un’espressione, insomma, la cui storia pubblica è connessa all’Illuminismo e all’ascesa della borghesia. (E forse non è un caso che il 4 luglio 1776, pochi anni prima dell’Autoritratto, la Dichiarazione di indipendenza americana riconobbe «a tutti gli uomini il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità»). Sui social il sorriso è sfumato nel broncetto da selfie, ma rimane un simbolo di successo e felicità, come un accessorio firmato. Allo stesso modo in letteratura la scelta di scrivere di sé funziona come un simbolo di autenticità e qualità. In entrambi i casi si tratta di messe in scena, decise in ossequio al gusto dominante e non necessariamente più autentiche. Mettersi in posa vuol dire sempre anche nascondersi: significa scegliere che cosa mostrare.
«È ancora possibile distinguere la persona dal personaggio?» si chiede Laura Boella (filosofa, qui intervistata da Marino Sinibaldi) in Con voce umana, un piccolo libro sull’incontro tra Maria Callas e Ingeborg Bachmann sfiorato a Milano nel 1956 per una Traviata diretta da Luchino Visconti. «Persona in latino vuol dire “maschera”», scrive Boella. Se l’autofiction è, alla lettera, la possibilità di inventarsi – cioè di inventare la maschera – mischiando verità e finzione, allora il Selfismo si profila come una sorta di carrèrismo di massa, senza Carrère. Accade nei libri, cioè, quello che accade nel mercato: perché qualcosa oggi sia considerato desiderabile da un pubblico, occorre preliminarmente rendere attraente il marchio che lo veicola, che in questo caso è l’autore.