di Gabriella Cantafio (wired.it, 24 luglio 2021)
«Per i bianchi sono nera e per i neri sono bianca. Sono tunisina e sono italiana. Sono tutto e sono niente. Ma la cosa che mi dà più fastidio è essere categorizzata per il velo che indosso e non vedere riconosciuta la mia professionalità». Takoua Ben Mohamed, classe 1991, è fumettista, producer e autrice della graphic novel Il mio migliore amico è fascista, edito da Rizzoli. Tra le pagine di questo suo primo libro per ragazzi è racchiusa la sua storia che l’ha portata a valicare la “porta del Sahara” per giungere in Italia, dove ad attenderla c’era il papà e tanti pregiudizi.
«Sono arrivata a otto anni con mia madre e i miei fratelli più grandi, per ricongiungerci con mio padre, rifugiato politico in Italia, costretto ad andar via dalla Tunisia per aver partecipato a manifestazioni di protesta contro la dittatura di Ben Ali», racconta a Wired ricordando i primi passi mossi nel Belpaese. Dopo un primo anno vissuto nella piccola comunità di Valmontone, che ha subito accolto la sua famiglia, è sopraggiunto l’impatto con le sfumature contrastanti di Roma e, soprattutto, con l’11 settembre 2001, una data che ha segnato una nuova era, anche nella vita di Takoua. «Prima dell’attentato alle Torri Gemelle c’era un’altra percezione di noi musulmani, dei migranti. Poi, improvvisamente, la gente ha cambiato atteggiamento nei nostri confronti, avevamo la sensazione di essere spiati dai vicini, ci guardavano come se sospettassero che tenessimo delle bombe in casa». Così, mentre l’attacco terroristico sconvolgeva il mondo, Takoua ha deciso di imbracciare una matita e un foglio bianco per annientare gli sguardi diffidenti e tratteggiare la sua vera essenza, oltre il velo che ha deciso, liberamente, di indossare sin da bambina.
«Dalle provocazioni e dagli insulti che ricevevo, soprattutto, dal mio compagno di banco Marco [di cui parla nel libro, N.d.R.], ho iniziato a pormi delle domande su dettagli che io stessa ignoravo: per esempio, per lui ero “la tunisina”, ma ormai la Tunisia l’avevo dimenticata; non sapevo di essere un’immigrata o che cosa fossero i terroristi. Così, ferita ma altrettanto curiosa, cercavo il significato di queste parole in cui mi categorizzavano», prosegue illustrando come, nonostante le difficoltà che vive tuttora, questi attacchi hanno rappresentato lo sprone ad impegnarsi nell’attivismo sociale e nel volontariato. Unendo la passione per il disegno e l’impegno per i diritti umani ha trovato nel fumetto il mezzo di comunicazione, da piccola, per superare l’ostacolo della lingua italiana e, successivamente, per narrare con semplicità e, talvolta, ironia la quotidianità delle seconde generazioni in Italia, tra integrazione e multicultura.
Diplomata all’Accademia di cinema d’animazione a Firenze, in prima linea su temi politici e sociali, dalla primavera araba al ruolo delle donne nella rivoluzione sino alla violazione dei diritti umani nei Paesi arabi, Takoua è testimonial di Look beyond prejudice, campagna di sensibilizzazione contro l’islamofobia promossa dalla Fondazione L’Albero della Vita per combattere le discriminazioni che devono subire le donne musulmane. Quella discriminazione che, in quanto scura di pelle, musulmana con il velo e figlia di migranti, vive quotidianamente, soprattutto nell’ambiente professionale: «Per me è sempre stato molto complicato trovare un posto da dipendente, già quando cercavo lavoretti per mantenermi durante gli studi non venivo mai presa in considerazione. È stato difficile, ma ammetto che, dopo tante porte chiuse in faccia, grazie alla mia intraprendenza e ai miei sacrifici, sono riuscita a costruire la mia carriera di fumettista e produttrice freelance che mi dà tante soddisfazioni».
Insieme ad altri ragazzi, ha fondato anche M Collective Ltd, una società di produzione che realizza documentari su giovani, innovazione, cambiamenti sociali e intercultura, tra cui il docufilm Hejab Style, andato in onda, lo scorso anno, su Al Jazeera. Tante, dunque, le gratificazioni con cui Takoua fortifica il suo carattere, volgendo le spalle ai pregiudizi, persino dei suoi professori che la trattavano come se non avesse alcuna prospettiva nella vita. «La scuola, purtroppo, anziché luogo laico di incontro tra diverse culture, spesso si rivela un covo di preconcetti. Ora sono cresciuta e ho le spalle forti, ma ho provato sulla mia pelle che cosa significa essere perseguitata da atti di bullismo. Credo che l’ambiente scolastico debba essere più inclusivo, insegnare anche ad affrontare la vita, a conoscere meglio, per esempio, la storia delle religioni e la politica contemporanea per formare giovani consapevoli e rispettosi delle diversità», commenta, non trattenendo il rammarico per le limitazioni dovute, sin dai banchi di scuola, alla mancata cittadinanza italiana.
«Non è una questione di identità, in quanto so di essere italiana e non devo convincere nessuno; si tratta piuttosto di diritti negati. La Costituzione professa l’uguaglianza, ma purtroppo se hai un reddito basso non ti puoi permettere la cittadinanza», denuncia a gran voce, invitando tutte le ragazze musulmane, e non solo, a battersi per i propri diritti, a imparare a dire di no e soprattutto a raccontarsi, a denunciare. Takoua si ritiene fortunata, anche grazie ai genitori che l’hanno sempre sostenuta, ma per valicare la porta dell’ignoranza, in una società da lei definita “occidentalocentrica”, consiglia di utilizzare la chiave del dialogo, nel pieno rispetto della libera scelta. Come quella che l’ha portata a indossare il velo, che per lei non rappresenta affatto un simbolo di oppressione, a non dare più peso al giudizio degli altri, a impegnarsi sempre in nuovi progetti professionali perché «sarò pure diversa, ma sono ciò che ho deciso di essere».