di Pierluigi Battista (huffingtonpost.it, 21 febbraio 2025)
Siamo così schiacciati sul presente da pensare che nella politica tutto sia stato inventato adesso. Che siamo all’Anno Zero, che Silvio Berlusconi ha introdotto lo spettacolo nella politica, che con il trumpismo siamo al culmine del trionfo della personalizzazione della politica, che la politica è diventata irrimediabilmente schiava di codici estetici.
di Francesco Cundari (linkiesta.it, 3 gennaio 2025)
Dinanzi alla seconda cerimonia d’insediamento di Donald Trump, unico presidente degli Stati Uniti che negli ultimi centotrent’anni sia stato eletto per un secondo mandato non consecutivo (il solo precedente risale all’Ottocento), una domanda s’impone immediatamente su tutte le altre: per quale motivo, anziché alla Casa Bianca, non si trova in galera? Il fatto che porre una simile domanda possa apparire oggi una battuta provocatoria o addirittura una dimostrazione di estremismo, ostilità preconcetta, accecamento ideologico, la dice lunga su quanto si sia spostato, in questi anni, il confine di ciò che consideriamo accettabile in democrazia.
di Richard Lawson (vanityfair.it, 15 novembre 2024)
L’impensabile è accaduto di nuovo, il che, deduco, non lo rende poi tanto impensabile. Lo slogan che intrecciava timore e speranza della campagna di Kamala Harris, «We Are Not Going Back», era sbagliato: come il personaggio di un film dell’orrore che pensa di essere sfuggito all’assassino una prima volta e si sente ormai al sicuro, proprio per sottolineare l’effetto sorpresa quando questo ritorna, gli americani ritrovano una versione del loro Paese che pensavano di essersi lasciati alle spalle quattro anni fa.
Quando nel 2016 ha cominciato a frequentare gli show televisivi per promuovere il suo libro Hillbilly Elegy, J.D. Vance, allora giovane venture capitalist cresciuto all’ombra del miliardario del tech Peter Thiel, aveva lo stile informale della Silicon Valley. Camicia senza cravatta, giacca spesso di velluto, a volte i jeans.
Alla fine del 2007, quando il mondo era così recente che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito, un amico del liceo mi parlava con fare appassionato di un sito al quale alcune sue conoscenze americane l’avevano fatto iscrivere. “È un social network, dove puoi parlare con la gente che conosci e guardare cosa fa”, mi spiegava, incontrando la mia incapacità di comprendere di cosa stesse parlando ma convincendomi, nel giro di poche settimane, a iscrivermi a mia volta.
È verità universalmente riconosciuta che l’unico modo per dire qualcosa di rilevante sul presente sia fare un film in costume. È anche per questo che da settimane tutti scrivono di Mank, il film di David Fincher che il pubblico non vedrà fino al 4 dicembre, allorché arriverà su Netflix. Certo, ci sono molte ragioni per parlarne. È Fincher, che quando fa un film è sempre un evento. È Fincher che ricostruisce la storia di Quarto potere, il film che quelli che ne capiscono ritengono il più bello della storia del cinema. È Fincher che lo fa non focalizzandosi su Orson Welles – il Wunderkind (è la parola che usa Mank) cui a ventiquattro anni quelli che ci mettevano i soldi diedero qualcosa che altri registi a volte non ottengono in una vita: l’autorità assoluta sul progetto, il potere decisionale, l’esenzione dalle discussioni coi finanziatori – ma su Herman Mankiewicz, lo sceneggiatore quarantatreenne che scrive il film del bambino prodigio.
di Ferdinando Cotugno (esquire.com, 18 novembre 2020)
In questo momento negli Stati Uniti per cambiare realtà basta cambiare canale. Per molti trumpiani la dissonanza cognitiva su chi ha vinto le elezioni e come andranno le prossime settimane e i prossimi anni è una questione di zapping. È come vivere il post partita di un derby molto sentito, perso in modo particolarmente brutto. Su Fox News la partita è finita e siamo ai commenti. Sui canali concorrenti a destra di Fox News, cioè Oann e Newsmax, siamo ancora in parità alla fine del primo tempo.
Ph. Caroline Brehman / CQ-Roll Call, Inc via Getty Images
Michael Wolff è il giornalista del momento, i paparazzi stazionano sotto casa sua dopo che ha pubblicato Fire and Fury, bestseller sul disordine della Casa Bianca, anticipando tutti i colleghi. Wolff non fa che ringraziare Donald Trump, giustamente, perché quanto fa vendere libri e giornali il presidente degli Stati Uniti, nessuno mai.Continua la lettura di “Fire and Fury” fa andare i pop corn di traverso→
di Fulvio Giuliani (linkiesta.it, 15 gennaio 2018)
Donald Trump pare ne abbia fatta un’altra, definendo alcuni Paesi – per lo più africani e centroamericani – “di merda”. Un felice giro di parole, nulla da dire, soprattutto se pronunciato dal leader di quello che un tempo si definiva “il mondo libero”, e per di più nello Studio Ovale della Casa Bianca.Continua la lettura di Perché i fan italiani di Trump sono molto peggio di Trump→