di Massimo Basile (repubblica.it, 3 novembre 2022)
Un oscuro uomo d’affari russo, un lobbista americano, un circolo esclusivo nel cuore di Manhattan. E, naturalmente, Donald Trump e Vladimir Putin. In un lungo articolo il New York Times unisce i tasselli del “Piano Mariupol”, un puzzle che, per la prima volta, vede insieme l’hackeraggio russo alle presidenziali americane del 2016 e l’avanzata dei carrarmati di Putin in Ucraina.
È almeno dal 2016 che si discute del ruolo delle pubblicità politiche sui social network, e su Facebook in modo particolare. All’epoca le piattaforme digitali erano state accusate, a torto o a ragione, di aver contribuito all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel 2016 permettendo la pubblicazione di inserzioni elettorali che contenevano informazioni false o fuorvianti e di non essere state sufficientemente trasparenti sul tipo di inserzioni che venivano indirizzate ai loro utenti.
Dopo varie settimane di commenti antisemiti, molte aziende hanno interrotto le fruttuose collaborazioni che avevano da anni con il rapper e imprenditore statunitense Kanye West (che da tempo ha cambiato legalmente nome in Ye), intaccando seriamente le sue fonti di reddito. A inizio ottobre si stimava che il patrimonio del rapper fosse pari a circa 2 miliardi di dollari, ma una parte molto rilevante della somma – 1,5 miliardi – proveniva da Yeezy, il marchio di streetwear prodotto in collaborazione con Adidas, che martedì ha mollato ufficialmente West.
di Francesco Boille (internazionale.it, 24 ottobre 2022)
«Sapevo di citare Mussolini. Mussolini era Mussolini. Ok. È una bella citazione, molto interessante. So chi l’ha detta. Ma che differenza fa se è Mussolini o qualcun altro? È sicuramente una frase molto interessante. C’è un motivo se ho 14 milioni di follower tra Facebook e Twitter. È una citazione interessante che può essere fonte di dibattito». Il prologo si concentra su Donald Trump.
Il controverso rapper americano Kanye West è pronto ad acquistare Parler, il social network conservatore che ha avuto anche un ruolo nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 e che per questo era stato bandito da Google Play e App Store. Quella dell’artista, che è passato da Kanye a Ye, è una mossa che arriva dopo l’estromissione da Twitter per un post antisemita nei confronti dell’American Jewish Committee che già aveva segnalato i contenuti dei suoi post su Instagram.
Steve Bannon, ex consigliere e stratega dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, è stato formalmente incriminato nello Stato di New York per riciclaggio di denaro, truffa e cospirazione per il caso dell’associazione “We Build The Wall”. L’associazione era stata fondata da Bannon e altri per raccogliere donazioni che avrebbero dovuto contribuire a costruire un muro in un tratto del confine tra Messico e Stati Uniti, allo scopo di fermare i migranti: si era però scoperto che una parte dei soldi raccolti era stata usata da Bannon e da altre tre persone per spese personali, e ad agosto del 2020 Bannon era stato arrestato. A gennaio del 2021, nel suo ultimo giorno da presidente, Trump aveva concesso la grazia a Bannon (e con lui ad altre 142 persone), evitandogli un processo federale per quelle accuse.
Il social non è più solo intrattenimento: diventato agorà, è ormai un canale necessario per i partiti. Ma si ritrova a fare i conti con la disinformazione. E con una domanda: si può parlare di politica in un minuto? Dai balletti al voto. TikTok ha smesso di essere il social dei playback. Lo è ancora, ma non è solo quello. A differenza di altri grandi social network, TikTok è sempre stato votato all’intrattenimento puro e non si è mai proposto come agorà. Eppure lo è diventato. E qui, come sempre, la situazione si complica. Un social che diventa luogo pubblico di discussione attira idee, messaggi, ma anche bufale e disinformazione. Facebook se ne è accorto con Cambridge Analytica, TikTok quest’anno durante la guerra in Ucraina. Come la pubblicità, la comunicazione politica è – in un certo senso – laica: non bada al palcoscenico, ma va ovunque ci sia una platea da raggiungere.
Google non ha approvato la distribuzione di Truth Social, l’app che permette di collegarsi al social network creato dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sul Play Store, il servizio per scaricare e acquistare nuove applicazioni sugli smartphone Android: secondo Google, il social network violerebbe le norme sulla moderazione dei contenuti, in particolare rispetto alle minacce e all’incitamento alla violenza. Truth Social (“truth” significa “verità”) era stato presentato lo scorso ottobre, e la app è disponibile dallo scorso febbraio sull’App store di Apple (ma non ancora in Italia). Trump l’aveva creato come alternativa ai social network da cui era stato rimosso per il suo coinvolgimento nell’attacco al Congresso statunitense del 6 gennaio 2021: l’aveva descritta come la piattaforma che puntava a «dare una voce a tutti», «per opporsi alla tirannia delle società Big Tech» e «per combatterle».
C’è in queste ore un candidato per le primarie repubblicane in Georgia per il Senato che sta ottenendo l’attenzione e la curiosità dei media per le sue posizioni a dir poco originali e la politica creativa in ambito ambientale. Si chiama Herschel Walker ed è un’ex stella del football professionista. Sostiene che l’America ha troppi dannati alberi e dobbiamo iniziare a deportarli, riferisce in sintesi il suo pensiero il Post. E attacca il presidente Joe Biden e il senatore democratico Raphael Warnock perché «stanno spendendo 1,5 miliardi di dollari per la silvicoltura urbana e stanno aumentando le tasse a coloro che guadagnano meno di 200.000 dollari per pagarla. Sì, ho un problema con loro», taglia corto Walker. In realtà, chiosa il quotidiano, «la legge democratica sul clima, l’energia e l’assistenza sanitaria a cui fa riferimento Walker non aumenta le aliquote fiscali a nessuno».
di Francesco Gottardi (ilfoglio.it, 23 agosto 2022)
Da oltre trent’anni, oggi lui ne ha 60, Dennis Rodman è il più conclamato simbolo cestistico dell’eccesso. E ogni eccesso nasce da un preciso e personalissimo impulso morale: fregarsene. Sempre, di ciò che pensano gli altri. Da ragazzino ha iniziato a fregarsene del suo stesso fisico, perché i suoi 2,03 metri, a detta di tutti, erano decisamente troppo pochi per un’ala grande. Sarebbe diventato tra i difensori più forti della sua èra e il miglior rimbalzista di sempre – a detta di tutti: secondo lui invece, emerge in una recente intervista a GQ, «è una bella stronzata». Del suo corpo se n’è anche fregato bevendo a dismisura, sfiorando il suicidio. Per poi curarlo a modo suo: piercing, tatuaggi, capigliature di ogni colore fino a farne una tela vivente che oggi continua a infatuare donne e stilisti di mezzo mondo. Da giocatore Rodman se ne fregava perfino delle Nba Finals, sgusciando a Las Vegas o agli show di wrestling tra una gara e l’altra.