di Michele Smargiassi («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 6 luglio 2018)
Dal ritratto equestre dell’imperatore al premier con la pizza nel cartone. Quanto è decaduta la rappresentazione della politica? «Per nulla. La camicia bianca di Salvini è solo la nuova versione della statua a cavallo», è la risposta imprevista di Riccardo Falcinelli.
Grafico e studioso di cultura visuale tra i più apprezzati dell’ultima generazione, autore di una utilissima Critica portatile al visual design. Gli chiediamo di smontare la retorica delle nuove immagini del potere.
Che cos’ha di solenne la camicia di Salvini?
«Di solenne, poco. È bianca e non azzurra come la camicia dei businessmen. Può sopportare la cravatta durante una cerimonia ma stare slacciata nei talk show. E, soprattutto, la sua fidanzata gliela stira».
Non dovrebbe?
«Faccia pure, io parlo di immagini. Della foto in cui recita la brava donna di casa che stira la camicia al marito. E quella camicia è la stessa. Può sembrare un dettaglio, ma è la costruzione sapiente di una narrazione».
Non lo fa un po’ troppo consapevole?
«Non è necessario che lo sia. Dubito che Salvini possieda solo camicie bianche. Quella foto afferma: “lo sto stirando proprio la camicia bianca che gli vedrete addosso domani quando farà il suo lavoro”. Non so se c’è dietro un comunicatore raffinato, potrebbe anche non esserci. Gli strumenti per fabbricare immagini sono sapienti al posto nostro. Ci aiutano a dire “bene” le cose anche se non ce ne rendiamo conto. Il destinatario vede l’immagine e, senza bisogno di semiologi, la riconosce. E il messaggio arriva».
Ma come si arriva dal cavallo al selfie?
«Gradualmente. L’immagine che i politici hanno sempre dato di loro, dai tempi della pittura ad olio, era istituzionale. Cecil Beaton fotografava la regina Elisabetta con la corona in testa. Ora quel tipo di solennità costruita la troviamo nelle foto di moda. Le immagini che i politici diffondono oggi tentano di sostituire la colloquialità alla ieraticità».
Anche Mussolini si toglieva la camicia e mieteva il grano…
«Erano sempre immagini istituzionali, ma fuori dallo schema borghese. Erano costruzioni monumentali, verticali. Anche la bandana di Berlusconi aveva qualcosa di istrionico, ma faceva ancora parte del vecchio schema equestre…».
La fotografia finto-spontanea ha una lunga storia… La inaugurò Roosevelt, ne fece un’arte Kennedy, pensiamo al ritratto con il figlio John Jr che gattona sotto la scrivania dello Studio Ovale… Fecero scandalo le foto dei baci tra Occhetto e la moglie Aureliana a Capalbio…
«C’era verosimilmente un fotografo che prendeva l’iniziativa, con un po’ di mestiere… “Facciamone una così che è simpatica”… Cambiava il contenuto, non la struttura verticale del messaggio. La svolta vera è che oggi i politici cercano di mimare l’aspetto e il funzionamento orizzontale delle immagini dei social».
Ma sono sempre immagini costruite. Una retorica c’è sempre.
«Ovvio. Ma è più difficile da vedere e più complessa da smontare. Quando un politico comunica il concetto “ecco, mi sono fatto un selfie, proprio come voi”, è chiaramente uno stratagemma mediatico. Il politico è ancora a cavallo del suo progetto tutt’altro che ingenuo. Ma le condizioni sono cambiate. Nel vecchio schema, c’era un tempo per fare l’immagine e un tempo per renderla pubblica. In mezzo c’era un medium: il giornale, il poster, lo spot televisivo. La condivisione social annulla il tempo e la mediazione, o per lo meno sembra sostituirla con una pseudo-spontaneità».
Ma come è possibile che non ci si accorga dello pseudo? Quando il presidente della Camera prende un autobus, quando il premier incaricato compra una pizza nel cartone sanno che i fotografi li riprendono, dove sta la spontaneità?
«Penso che molti credano davvero alla spontaneità di queste immagini. Può anche essere una scena grottescamente recitata, ma non conta molto. Siamo cresciuti con i rotocalchi finto-scandalistici, che erano in realtà fotoromanzi concordati con gli uffici stampa. Ricordiamoci sempre che anche quando sembra colto di sorpresa, il politico non produce una realtà, produce una immagine. Quel che conta è che sia una immagine accettabile e accattivante per chi la guarda. Sarà tanto più accattivante quanto più somiglierà a quelle che il destinatario fa ogni giorno a sé stesso e ai suoi amici. Anche i nostri selfie sono piccole recite sociali, ma fanno parte della nostra vita e per questo non li riteniamo falsi. La nuova immagine dei politici cerca di entrare da quella stessa porta».
Approfittano di una specie di “sospensione dell’incredulità”? Come al cinema, sappiamo che gli attori recitano ma ci piace credere che sia tutto vero…
«Il cinema è stato un grande incubatore della rivoluzione delle immagini dei politici. Fuori dallo schermo gli attori venivano presentati dai giornali come uomini normali, con figli, case, vacanze… Ovviamente tutte foto fornite dalla produzione del film».
Così, quando il portavoce di Renzi diffondeva fotine mosse e sfocate…
«… funzionavano perché combaciavano con l’estetica delle foto che abbiamo nelle memorie dei nostri cellulari. L’imperfezione diventa virtù, crea un effetto di verità».
Papa Francesco si fece fotografare, già in mantellina bianca, mentre pagava il conto dell’albergo…
«Anche questo Papa ha come cuore del suo discorso pubblico la spontaneità, la genuinità. Anche lui ha un account Instagram che ovviamente è gestito con sapienza. Tutto quello che vediamo del mondo oggi passa dall’imbuto dei display tascabili. Notizie, fiction, giochi, amicizie. I confini fra generi e linguaggi collassano. Chiunque voglia comunicare deve mescolarsi su quel piatto».
Possiamo parlare di un immaginario politico dell’era del populismo?
«Sicuramente. Il suo motto è “guardatemi, io sono voi”. Sarà difficilissimo smontare questo schema senza cadere dalla padella nella brace, cioè senza entrare nella paranoia per cui tutte le immagini sono ingannatrici. Perché, in fondo, di buone fotografie abbiamo ancora bisogno per guardare in faccia il mondo».