(ilpost.it, 14 giugno 2021)
A fine anni Ottanta Keith Barish, un produttore statunitense noto per La scelta di Sophie e L’implacabile, decise che voleva darsi alla ristorazione e creare una catena a tema cinematografico. A quanto pare, l’idea venne a un suo assistente, che nella sceneggiatura di un possibile film sui Flintstones aveva letto il nome “Hollyrock”, il corrispettivo preistorico e flinstoniano di Hollywood. Un nome che gli aveva fatto pensare che il concetto alla base della catena Hard Rock Cafe, fondata negli anni Settanta, poteva essere traslato dal mondo della musica a quello del cinema. Con scarsa fantasia, Barish voleva chiamare la catena Cafe Hollywood, e dopo qualche mese alla ricerca di possibili soci esperti di ristorazione finì per mettersi in società con il britannico Robert Earl.
Che negli anni Settanta aveva aperto, prima nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti, catene di ristoranti a tema medievale, e poi a tema western. E che nel 1987 aveva venduto la società con cui controllava circa settanta ristoranti ed era diventato amministratore delegato della Hard Rock Cafe International. Barish ed Earl si misero in affari insieme, ed Earl propose il nome che fu infine scelto: Planet Hollywood. Il primo Planet Hollywood fu aperto nel 1991 e in pochi anni ne seguirono alcune decine. Per una parte degli anni Novanta, Planet Hollywood sembrò essere una grandissima idea e nel 1997 la società, nel frattempo molto cresciuta, si quotò alla Borsa di New York, con ottimi risultati. In pochi mesi, però, le cose iniziarono a girare meno bene, e poi molto male: la società entrò in amministrazione controllata, e provò a cambiare un po’ di cose e ripartire. Ma andò di nuovo male. E da allora non ha mai più funzionato. Prima di aprire il suo primo ristorante e prima di sembrare a molti una grandissima idea, Planet Hollywood era stato un’idea semplicissima. Barish ed Earl, infatti, volevano fare quel che già facevano gli Hard Rock Cafe, e quindi riempire i loro ristoranti di cimeli e oggetti di scena legati ai più famosi film di Hollywood di quegli anni. Rispetto agli Hard Rock Cafe, aggiunsero però un aspetto determinante: cercarono, infatti, di convincere alcuni tra i più popolari attori di quel periodo a imbarcarsi con loro nel progetto. Con l’intento di far passare l’idea che quella catena era la catena di ristoranti delle star del cinema, e che andandoci sarebbe stato possibile, con un po’ di fortuna, trovarci uno di loro, o quantomeno gente del suo giro. Però mangiando cibo semplice, senza spendere troppo.
Come ha scritto Esquire in un recente articolo su Planet Hollywood, «siccome non avevano ancora soldi, [Barish ed Earl] offrirono [agli attori] quote nella loro società». Problema, però: «siccome quella società ancora non aveva aperto un ristorante, quelle quote non valevano granché». I due soci ci provarono lo stesso, e puntando subito al bersaglio grosso parlarono della loro idea con Arnold Schwarzenegger, che Barish aveva conosciuto per L’implacabile, che aveva da poco recitato in Atto di forza e che intanto era sul set di Terminator 2. Accettò subito, ha raccontato Barish a Esquire. Non paghi, i due soci fecero una proposta simile a Bruce Willis, fresco del successo di Die Hard 2. Accettò pure lui, tra l’altro offrendosi per suonare con il suo gruppo, gli Accelerators, alla futura inaugurazione del primo Planet Hollywood. Poi si aggiunse anche Sylvester Stallone, che, secondo quanto raccontò in seguito lui stesso, chiese in prima persona di far parte del progetto prima ancora che a chiederglielo fossero altri. Intervistato da Esquire, Earl ha ricordato che quando si trattò di pensare al menù, «Arnold voleva che fosse inserita una ricetta di sua madre per gli strudel», che «Stallone premeva perché ci fossero molte proteine», e che invece «Bruce – visto il suo passato [prima di diventare attore faceva il barista] – era più che altro interessato alla parte legata ai cocktail».
Il primo Planet Hollywood aprì a New York, a Manatthan, sulla 57ª strada, il 22 ottobre 1991. C’erano: Elton John, Donatella Versace, Donald Trump, Chris Rock, Marc Jacobs, Melanie Griffith, Wesley Snipes, Anna Nicole Smith, Glenn Close, Cher, Kim Basinger e, ovviamente, Stallone, Schwarzenegger, Willis e, come da accordi, pure gli Accelerators. L’indomani quell’inaugurazione fu raccontata come un grande evento mondano e ci fu chi scrisse addirittura che il Planet Hollywood sarebbe potuto diventare per gli anni Novanta quello che lo Studio 54, una storica discoteca, era stato per i Settanta. Già esistevano, e andavano assai forte, i fast food. Eppure lo scrittore gastronomico Michael Stern disse al New York Times: «Nell’ultimo decennio c’era chi pontificava sul cibo come forma d’arte e hanno trionfato le diete, e nel frattempo si è persa la vera ed essenziale realtà sul cibo: il cibo è divertimento. Ci sono migliaia di persone che vogliono tornare a mangiare burro d’arachidi. Ce ne sono a milioni che vogliono divertirsi un po’». In un paio di anni la catena crebbe e aprì nuovi ristoranti a Londra, in California, poi nel resto degli Stati Uniti e del mondo. Nel 1994 c’erano già diciotto Planet Hollywood, e quasi tutti – nel loro primo anno di apertura – avevano profitti per diversi milioni di dollari (spesso alcune decine di milioni di dollari), soprattutto grazie alla vendita di prodotti di merchandise che niente avevano a che fare con cibo e bevande, e che contribuirono ad aumentare non di poco i margini di profitto di tutte quelle attività. Spesso e volentieri, tra l’altro, le persone facevano code per comprare magliette o altri oggetti negli appositi Planet Hollywood Superstores, senza nemmeno fermarsi a mangiare. Come succedeva, e succede ancora, agli Hard Rock Cafe.
Ai tre attori presenti fin dall’apertura si aggiunsero – tra gli altri e in varie forme – Whoopi Goldberg, Jean-Claude Van Damme, Don Johnson, Melanie Griffith, Tom Arnold, Wesley Snipes, Demi Moore e Danny Glover. «Per un pezzo degli anni Novanta» ha scritto Esquire «queste star del cinema sembrarono abbandonare ogni pretesa di alterigia, e tutti sembrarono cedere al loro amore per le celebrità, pagando dieci dollari per un hamburger da mangiare vicino alla parete su cui era esposta una delle giacche di Terminator. Era dozzinale? Sì. Fu un gigantesco successo? Tantissimo». In ogni nuovo Planet Hollywood le pareti erano piene di foto firmate da famosi attori, e i tanti schermi presenti mostravano scene celebri o trailer di film in uscita. Tra i cimeli esposti c’erano il vestito di Dorothy nel Mago di Oz, la ruota per vasi usata in Ghost, una Batmobile, tutta una serie di modellini, il vestito di Rita Hayworth in Gilda, la scatola di cioccolatini di Forrest Gump e l’ascia di Shining. Cose così, insomma. Molte delle quali avevano, al tempo, molto meno valore rispetto a oggi. L’assistente di Barish incaricato di comprare oggetti di questo tipo raccontò, per esempio, che l’ascia di Shining la recuperò con relativa facilità da «un tizio che aveva lavorato nel film e se l’era tenuta». L’assistente chiese al tizio cosa volesse, in cambio di quell’ascia, ancora sporca del sangue finto usato sul set. «Un’ascia nuova», rispose il tizio.
In genere, i ristoranti della catena avevano tra i centocinquanta e i duecentocinquanta coperti. Ma, visto che gli affari parevano andare benissimo, Barish ed Earl pensarono di pensare ancora più in grande. E nel 1995 furono aperti due Planet Hollywood da circa cinquecento posti ciascuno: uno a Las Vegas e l’altro a Disney World, in Florida. In genere, ogni nuova apertura era un evento mondano e pieno di celebrità: «è come gli Oscar, ma meglio», disse Oprah Winfrey nel 1995 parlando di Planet Hollywood. E Barish ha detto a Esquire che a un certo punto le celebrità iniziarono a presentarsi alle inaugurazioni anche senza essere soci, nemmeno in minima parte, della società, ma solo per farsi vedere lì. A eventi che si fecero via via più esagerati: all’inaugurazione di Las Vegas, per esempio, Steven Segal arrivò a dorso di elefante. Il primo e unico Planet Hollywood italiano apri nel 1997 a Roma, nella-centralissima-via-del-Tritone, vicino a Piazza Barberini. All’inaugurazione c’erano, insieme al sindaco Francesco Rutelli, Schwarzenegger, Stallone e, tra gli altri, il suo doppiatore Gigi Proietti. Il locale, grande più di mille metri quadrati disposti su tre piani, aveva ristorante, bar e negozio. La sua apertura fu criticata da diversi ristoratori della zona, preoccupati dal fatto che avrebbe reso difficili i loro affari. Ci fu chi – reiterando il fraintendimento sul fatto che Stallone e Schwarzenegger fossero tra i “proprietari” del locale – parlò di una “Planet Hollywood mania”, «in stile hollywoodiano», ma con immancabili centurioni.
Fatta però eccezione per pochi ristoranti statunitensi in cui, a volte, continuavano a esserci eventi e partecipanti famosi anche dopo le aperture, in gran parte dei Planet Hollywood le celebrità non rimettevano più piede, dopo l’inaugurazione. Gli affari, comunque, continuavano ad andare bene. Nel 1996, nemmeno cinque anni dopo l’apertura del suo primo ristorante, la società si quotò alla Borsa di New York e le sue azioni, inizialmente offerte a diciotto dollari, arrivarono a valere circa il doppio. La società raggiunse una valutazione superiore ai tre miliardi di dollari ed Earl finì nella lista di Time delle persone più influenti degli Stati Uniti. Nel frattempo, Earl – che aveva dovuto occuparsi di una causa intentatagli da un dirigente di Hard Rock Cafe, secondo il quale aveva rubato segreti commerciali alla catena di ristoranti a tema musicale – lavorò all’apertura di tutta una serie di succursali di Planet Hollywood. Come i Cool Planet Cafe, in cui vendere gelati; o come gli Official All Star Cafe, per fare con famosi sportivi quanto era stato fatto con le celebrità del cinema. Earl pensò a un progetto, poi mai concretizzato, che voleva chiamare Chefs of the World, per unire in un’unica catena i più famosi cuochi al mondo. E aprì anche, in collaborazione con la Marvel (ma prima dell’Universo Cinematografico Marvel), il ristorante Marvel Mania, che nei suoi piani doveva essere il primo di una grande catena. Intanto pensava anche a multisala, resort e casinò a nome Planet Hollywood.
Poi, però, i ristoranti Planet Hollywood – che nel frattempo erano diventati circa una cinquantina – e la società che li controllava iniziarono ad avere problemi. Tanti e vari. Avevano iniziato ad aprire altre catene che facevano concorrenza a Planet Hollywood, spesso con prodotti migliori e maggiori attenzioni alla ristorazione: che non fu mai una cosa per cui la catena si fece apprezzare, e che secondo molti peggiorò – non di poco – con il passare degli anni. Stava in parte sfumando la fama dei grandi attori da fine-anni-Ottanta e primi-anni-Novanta con cui Planet Hollywood più si era identificata. E anche la quotazione in Borsa probabilmente non aiutò. Perché, per usare le parole di Barish, arrivò «nell’anno sbagliato e al momento sbagliato», tra le altre cose «mettendo grande pressione alla società perché crescesse su base trimestrale», dopo anni in cui già era cresciuta tantissimo. E dopo che molti di quelli che volevano comprare prodotti a marchi Planet Hollywood probabilmente già li avevano comprati. O forse, più semplicemente, molti si accorsero di quanto Planet Hollywood fosse un marchio creato dal niente, con cibo il cui rapporto qualità-prezzo lasciava spesso a desiderare, e in cui le persone famose facevano veloci comparsate e poco più (visto che, tra l’altro, i documenti allegati alla quotazione in Borsa della società avevano palesato quanto piccole fossero le loro quote). Resta il fatto che, con rapidità persino maggiore di quella della sua rapida ascesa, l’azienda iniziò il suo declino. Come scrisse il New York Times, «l’aria uscì dal soufflé» e Planet Hollywood si sgonfiò.
Nel 1998 – dopo che, tra l’altro, c’era stato un attentato in un Planet Hollywood sudafricano – Barish lasciò la società e vendette buona parte delle sue azioni. Quell’anno l’azienda registrò perdite per quasi duecentocinquanta milioni di dollari. Planet Hollywood si ritrovò con milioni di dollari di debiti e con azioni che erano arrivate a valere meno di un dollaro. Nell’ottobre del 1999 fece ricorso al Chapter 11, una legge fallimentare statunitense, entrando quindi in amministrazione controllata. Si provò a rimetterla in sesto e si decise di chiudere molte attività, tagliare costi e licenziare dipendenti per concentrarsi sui pochi ristoranti che sembravano più promettenti. Nel maggio del 2000 uscì dall’amministrazione controllata in cui era entrata dopo aver fatto ricorso al Chapter 11. Provò a trovare nuovi soci (tra gli altri: Shaquille O’Neal e gli N’Snyc), lanciò il suo sito Internet (che, tra le altre cose, aveva una chat e una serie di notizie su Hollywood e il cinema), rinnovò locali, menù e merchandising e provò a reinventarsi un po’. Non andò bene, e nell’ottobre del 2001 tornò in amministrazione controllata, anche in conseguenza della flessione economica e turistica successiva agli attentati dell’11 settembre di quell’anno. Dopo quel nuovo fallimento, quando già da un paio di anni la società non era più quotata in Borsa, Earl ne riprese il controllo, provando a proseguirne le attività. E il Planet Hollywood di New York si spostò a Times Square.
Planet Hollywood continua a esistere, seppur in misura molto più piccola e marginale rispetto a quello che fu negli anni Novanta. Stando al sito della società, che non sembra però essere granché aggiornato, ora ci sono cinque ristoranti (uno dei quali nell’aeroporto di Los Angeles) e quattro hotel: a Las Vegas, a Cancun, in Costa Rica e a Goa, in India. Quando si prova a parlarne, ha scritto Esquire, «le star del cinema che ci hanno avuto a che fare sembrano aver avuto un’improvvisa amnesia». Il Planet Hollywood di Roma chiuse nel 2003, sei anni dopo la sua inaugurazione. «Chiuso, fallito, sbarrato. The end» scrisse Repubblica: «È finito in un mare di carte bollate, con i creditori che bussano a porte sbarrate, a proprietari che sembrano essersi dileguati, il Planet Hollywood, dei divi del cinema Usa, il ristorante-piano bar-salotto-market di tee shirt e cappellini griffati-cimeli da film-memorabilia della celluloide al Tritone, per la cui apertura, nel dicembre del ’97, fu addirittura chiusa l’intera Piazza Barberini, si formò un eccitato corteo fin dalla Fontana di Trevi, i “paparazzi”, sì in questo caso il clima fu proprio da fotografi della Dolce Vita, rovesciarono flash e luci su Sylvester Stallone e, più indietro, allora, anche Arnold Schwarzenegger, ora neo-governatore repubblicano della California, col sorriso stampato, i jeans neri, maglietta nera, giubbotto di pelle nera e il logo rosso del Planet».