di Jason Parham (wired.it, 25 giugno 2024)
Negli ultimi anni Una famiglia vincente, Sound of Metal ed Everything Everywhere All at Once sono stati tutti nominati agli Oscar per il Miglior film, meritatamente. Sono pellicole che hanno una storia, una dimensione e uno scopo. Ma rappresentano anche eccezioni a una regola consolidata ormai da tempo: a Hollywood comandano gli uomini bianchi. Nel cinema americano le donne sono quasi del tutto ignorate rispetto ai loro colleghi maschi, mentre gli attori disabili e neri sono sottorappresentati in tutti i principali settori dell’industria, come conferma un rapporto dell’Università della California di Los Angeles (Ucla).
Kamala Avila-Salmon vuole migliorare le cose. È la responsabile dei contenuti inclusivi del Motion Picture Group di Lionsgate, dove ha iniziato a lavorare nel 2020 sfruttando la sua esperienza di esperta di marketing (ha ricoperto ruoli di alto livello presso Universal Pictures, Google e Facebook, tra gli altri) per cambiare il modo in cui lo Studio realizza i suoi film. Il suo compito è semplice: creare un’economia creativa che consenta una narrazione più attenta e storie che abbiano una portata il più ampia possibile. Per cominciare, spiega, bisogna mettere al centro il pubblico.
Questo mese Avila-Salmon ha lanciato Story Spark, uno strumento on line che aiuta i creativi a capire i limiti delle loro sceneggiature e delle scelte in termini di assunzioni, spingendo verso l’inclusività in tutti gli aspetti. In una fase in cui l’Intelligenza Artificiale minaccia di tagliare posti di lavoro e lo streaming stravolge le tradizionali modalità di fruizione, Avila-Salmon crede il suo tool, che ricorda un questionario a risposta multipla, possa essere un ponte verso un futuro più sano per Hollywood. «Story Spark non ti dice se il film è valido», mi spiega durante la nostra chiacchierata su Zoom. Non bisogna caricare la propria sceneggiatura e non c’è un consiglio segreto di esperti che giudica il tuo lavoro da dietro le quinte. Story Spark vuole semplicemente spingere autori e registi a creare un’opera che sia il più audace possibile.
Perché creare uno strumento come Story Spark? È una risposta al fallimento della rappresentazione sullo schermo?
«Story Spark non è una reazione a quello che manca. È una risposta e una proposta proattiva che rappresenta ciò di cui sento il bisogno. L’idea alla base è: come possiamo ottenere un cambiamento sistemico e scalabile che possa davvero andare a scovare i registi e aiutare anche i dirigenti a incontrarli? A volte c’è l’idea che, in quanto donna nera e persona che ha trascorso molto tempo a lavorare sull’inclusione, io abbia una visione specifica su quello che è inclusivo, che nessun altro senza la mia esperienza diretta può avere, giusto?».
Giusto.
«Anche se sembra un grande complimento, in realtà portare avanti questo lavoro è davvero soffocante, perché implica di trovare sempre una donna nera o qualcuno che lavora in un reparto Diversity, Equity, and Inclusion (Dei) o una persona queer che mi dicano se una cosa è inclusiva o meno. Ma quando penso all’inclusione ci sono una serie di domande ripetibili e prevedibili che mi pongo e che si pongono anche le altre persone. Se riusciamo a metterle insieme in uno strumento facile da usare ma che spinga a riflettere, possiamo permettere ad altre persone, indipendentemente dal loro background, di raccontare storie più inclusive, che secondo noi non sono solo storie più commerciali, ma storie che avranno un impatto maggiore, sia dal punto di vista finanziario sia del pubblico».
Come avete deciso di realizzarlo?
«Abbiamo esaminato quali sono gli elementi di cui parlano il pubblico, i critici, gli accademici, i dirigenti cinematografici e i narratori quando si parla di inclusione. E sono gli elementi che abbiamo integrato in Story Spark. C’è tutto, da quello che accade dietro la macchina da presa alla diversità nelle rappresentazioni dei personaggi, dalla dimensionalità dei ritratti a domande come “Stiamo ribaltando tropi e stereotipi?”».
L’avete testato utilizzando i film di Lionsgate?
«Abbiamo lavorato su trecento lungometraggi, sia quelli in fase di sviluppo sia quelli completati dal nostro Studio. L’abbiamo usato anche all’esterno per aiutarci a fare un lavoro di benchmarking e capire cosa funzionava. Le cose che hanno funzionato bene in Story Spark sono quelle di cui si parlava nel mondo della cultura. Il punto è dare alle persone gli strumenti giusti. L’inclusione è una cosa alla portata di tutti noi. Serve l’impegno di tutti per creare un settore più inclusivo. Non spetta solo ai dirigenti Dei o ai registi queer o agli showrunner neri portarci queste storie».
Lei lavora in questo settore da molto tempo e a un livello molto alto. Cosa non viene capito della Dei?
«Per molto tempo ho fatto questo lavoro senza che fosse chiamata così. Dobbiamo arrivare a capire che la diversità, l’equità e l’inclusione sono aspetti fondamentali dell’azienda. Non si tratta di argomenti secondari o di qualcosa di isolato rispetto alle risorse umane. Gran parte del lavoro che ho fatto nel marketing consisteva nell’integrare questa mentalità nel mio lavoro».
In che modo?
«Quando lavoravo nel settore musicale, alla Rca, e supervisionavo il marketing di Janelle Monáe e altri progetti, pensavo a come mettere al centro il pubblico sottorappresentato. Quando sono passata a Google e Facebook, ho visto un vuoto. Sono arrivata come esperta di marketing nel settore dell’intrattenimento, ma il modo in cui ho pensato alle campagne di marketing è sempre stato rivolto al pubblico sottorappresentato, perché ritenevo che fosse al centro della cultura. Se non parliamo a loro, sarà molto difficile creare una serie o un film o un album di successo».
Certo.
«Ma, per farlo bene, abbiamo bisogno di più diversità tra le fila dei dirigenti. Dovevamo anche creare programmi per lo sviluppo, il mentoring, il networking e, col tempo, mettere insieme un’ipotesi per fare del Dei un’attività centrale della funzione aziendale. Sono arrivata a Lionsgate per questa ragione. Nei colloqui che ho avuto con la dirigenza, ho sempre pensato di entrare in azienda per costruire qualcosa di sistemico. Come dev’essere una strategia creativa inclusiva? Si tratta di un approccio in grado di resistere agli alti e bassi delle nelle aziende americane […]».
Ci sono molte “azioni performative” intorno alla Dei in alcune aziende e, più di recente, un’opposizione generale nella cultura, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Perché è così difficile far sì che le persone considerino la Dei fondamentale per il successo?
«Le aziende non esistono nel vuoto, ma fanno parte della società. “La diversità fa bene agli affari” è diventato un luogo comune, ma per avere successo è necessario capire bene chi è il proprio pubblico e cosa gli interessa. Ed è una cosa che cambierà in continuazione man mano che nuovi pubblici arriveranno on line ed emergeranno diverse preoccupazioni culturali. Non si diventa un’azienda di rilievo senza rimanere attaccati al consumatore, che si preoccupa molto della rappresentazione, dell’autenticità e di chi appare in quali storie».
Proprio come Dei, anche “rappresentazione” è una di quelle parole che si sentono spesso a Hollywood. Come la definisce?
«Quando si dice che la rappresentazione è importante, in parte è perché significa vedersi ritratti sullo schermo e vedere rappresentate le proprie sfide, le proprie esperienze e i propri trionfi, e questo fa sentire affermati come membri del mondo. Ma la vedo anche dal punto di vista opposto. Una delle cose straordinarie dello storytelling è la possibilità di vedere persone che non sono per niente come te. Non viviamo ancora in un mondo bellissimo, pluralistico, equamente rappresentato, dove incontriamo persone di etnia, estrazione socioeconomica, identità regionali e nazionali diverse eccetera. Usiamo ancora lo storytelling per colmare questo divario».
Assolutamente.
«Quindi ho scoperto che per me il motivo per cui l’inclusione autentica è fondamentale è che per una bambina nera è importante vedere un personaggio che assomiglia a lei, a sua mamma o a sua zia tanto quanto lo è per una bambina bianca. La rappresentazione è preziosa per tutti i consumatori».
Story Spark viene descritto come uno strumento “destinato a innescare conversazioni sull’inclusività di una storia tra creativi e responsabili dello sviluppo”: quali sono le conversazioni che non avvengono tra i creativi e i responsabili dello sviluppo?
«Le sceneggiature passano attraverso molte fasi diverse prima di diventare il film che vediamo sullo schermo. Si parte con l’intenzione di fare qualcosa che sia adatto per la fase di sceneggiatura […]. Nel processo di sviluppo, viene tutto discusso: i personaggi sono sviluppati a sufficienza? Le loro motivazioni sono chiare? Il climax è solido? C’è un arco narrativo forte? Quello che volevamo fare era inserire una serie di domande sull’inclusione che pensiamo favoriscano molti di questi elementi narrativi […]».
L’idea è nata da cose che ha visto a Lionsgate?
«Arrivando a Lionsgate, ho scoperto che alcune delle conversazioni che Story Spark è in grado di innescare avvenivano in modo organico. Ma a volte il momento prende il sopravvento e non si torna più su una certa conversazione».
Come fa Story Spark a garantire che questo invece accada?
«Story Spark ci ha permesso di avere conversazioni in fasi diverse. Man mano che il progetto continua a svilupparsi, magari cambiamo alcuni elementi dell’arco narrativo o inseriamo alcuni membri del cast che poi portano una diversità che non esisteva sulla pagina. Ci siamo imbattuti involontariamente in qualche tropo e stereotipo ora che abbiamo scelto una certa persona? È autentico? Ha ancora senso? In questo modo la conversazione, che dovrebbe essere organica, ha un modo coerente di manifestarsi».
Quali sono state le più grandi intuizioni emerse negli oltre trecento progetti su cui avete testato il tool?
«Quello che ci ha permesso di capire davvero è che esiste una correlazione molto forte tra gli elementi di inclusione – visti attraverso la lente della diversità dei personaggi, dell’intersezionalità, della rappresentazione narrativa eccetera – e il livello di diversità del team creativo. Proprio oggi stavo guardando uno studio di genere che ha rilevato che i progetti in cui le donne hanno la possibilità di diventare registe o showrunner hanno visto un aumento significativo del livello di diversità generale del cast».
Come fate a mantenere Story Spark flessibile in modo che possa essere utile sia per i registi che tengono spesso conto dell’inclusione sia per quelli che hanno bisogno di maggiori indicazioni?
«Non tutte le note o le intuizioni che si ottengono da Story Spark possono essere rilevanti per ogni singolo progetto. Bisogna prendere questi spunti e combinarli con la volontà del narratore, con l’universo in cui si svolge la storia, con il periodo e con le richieste del pubblico».
Cosa l’ha sorpreso di più nello sviluppo di questo strumento?
«Per la domanda sui tropi e gli stereotipi, una delle cose che ci sono venute in mente è che c’è una serie di tropi e stereotipi che si presume siano conosciuti da tutti. La donna nera arrabbiata. L’amica nera. La migliore amica queer e impertinente. Ma ce ne sono altri che molte persone non conoscono. Fornendo alle persone le risorse per capire meglio quali sono i tropi e gli stereotipi che hanno tormentato alcuni gruppi sottorappresentati, invitiamo le persone a dare vita a conservazioni che non partano da un sentimento di vergogna o biasimo, ma di curiosità e apprendimento».
Il che è sicuramente importante.
«Questa domanda in particolare sembra avere un impatto sul modo in cui i dirigenti leggeranno le storie in futuro. Molti dirigenti mi hanno detto: “Non conoscevo i tropi X, Y e Z, ma ora li vedo in diversi progetti su cui sto lavorando, e non è detto che mi sarebbero saltati all’occhio”».
Uno degli obiettivi dichiarati di Story Spark è quello di “ampliare l’appeal commerciale” di un progetto. Perché dare la priorità a questo aspetto così presto? Mi sembra un errore. È facile perdere l’anima di un progetto quando il profitto è la preoccupazione principale rispetto all’arte.
«È un tema annoso. A volte c’è l’idea che per essere un creativo di alto livello si debba creare dal nulla e non pensare affatto al pubblico o ai soldi. Io metto in discussione questa idea. Molti degli autori con cui lavoriamo non creano in questo modo. Possono avere una propria concezione di cosa significhi pensare all’attrattiva commerciale di una storia. Ma la maggior parte dei narratori vuole che la propria storia venga vista ed è molto interessata a pensare a quale sia il pubblico della loro opera».
Ha senso.
«Quando si pensa di costruire storie a partire da un pubblico sfaccettato – non solo le persone di colore, ma anche quelle queer, quelle disabili, le donne – vediamo tantissime prove in termini di incassi che suggeriscono quanto sia difficile costruire un successo che non intercetti il pubblico Bipoc (neri, indigeni e persone di colore) e femminile. Purtroppo non disponiamo di altrettanti dati sul pubblico queer e disabile dal punto di vista del botteghino, ma tutto ciò che leggo mi dice che è impossibile costruire un successo senza di loro. Quando diciamo che stiamo cercando di ampliare l’attrattiva commerciale, in realtà cerchiamo di offrire diversi punti di accesso a pubblici diversi da un punto di vista più autentico. In questo modo, quando vedono un personaggio nel trailer del film, hanno l’impressione che dietro ci sia stato un vero ragionamento, e non una rappresentazione superficiale o simbolica che non produce il risultato desiderato».
Cosa direbbe a chi definisce Story Spark come l’ennesimo strumento di Intelligenza Artificiale che gli Studios stanno imponendo a un settore già attraversato da fratture?
«Story Spark non prevede alcun tipo di Intelligenza Artificiale. L’unica cosa che lavora è il vostro cervello».
L’AI originale.
«Esatto. L’intelligenza reale. Una cosa che ho imparato quando lavoravo nel settore tecnologico è stato costruire soluzioni scalabili che le persone possano utilizzare davvero. [Con Story Spark] non si carica una sceneggiatura, ma si pongono domande. Per quanto riguarda l’idea che gli Studios impongano le cose in un mercato frammentato, credo che uno degli insegnamenti che ho tratto dagli scioperi di Hollywood è che i consumatori sono estremamente esigenti e che parte del ruolo che gli Studios svolgono in una collaborazione con uno storyteller è quello di trovare spazi di costruzione, dibattito e dialogo. Se un dirigente è d’accordo con tutto e non ha appunti, probabilmente il film non sarà il migliore possibile. Lo stesso vale per i narratori: non dovete fare vostre tutte le note, ma nemmeno farne vostra nessuna».
Cosa succede se non lo si fa?
«A mio parere, non c’è niente di peggio che presentarsi al weekend di apertura e scoprire all’improvviso che il proprio film è legato a una narrazione che non è mai stata sviluppata. Vogliamo eliminare questo problema e anticipare i dibattiti».
Story Spark non usa l’AI, ma l’AI sta arrivando a Hollywood. OpenAI sta corteggiando molti dei grandi Studios con Sora, un generatore di video basato sul testo. Molti registi hanno forti riserve sull’uso dell’Intelligenza Artificiale e sulle sue conseguenze. Secondo lei sono giustificate?
«Quello che è sempre successo quando arrivano le nuove tecnologie è che c’è un’immediata ondata di “Oh mio Dio, i videoregistratori faranno sì che nessuno andrà più al cinema”. E poi ci siamo resi conto che no, in realtà ci piace ancora uscire e fare quelle cose. Lo streaming musicale farà sì che gli album non saranno più ascoltati. In realtà abbiamo capito che ci piace ancora ascoltare il lavoro di un artista dall’inizio alla fine. È così che ho ascoltato Cowboy Carter e Renaissance [di Beyoncé]. Sebbene il timore sia ragionevole, credo che porterà a creare dei limiti sensati».
In che senso?
«Come esseri umani, ma anche come creativi, siamo sempre stati in grado di governare e di sfruttare a nostro vantaggio qualsiasi tecnologia. Non vedo alcuna prova che indichi che l’AI sarà significativamente diversa nel lungo periodo. Per le persone che lavorano agli Studios e per i creativi, e per tutti coloro che si trovano nel mezzo, il mio invito è quello di pensare a come l’AI sia uno strumento, che non sostituisce mai la persona. I coltelli ci rendono inutili? No. Posso tagliare il pollo più velocemente invece di doverlo fare a pezzi con le mani. Ma sono ancora una cuoca».