di Furio Zara (vanityfair.it, 18 febbraio 2023)
La Fia, Federazione Internazionale dell’Automobile, gli mette il bavaglio, e Lewis Hamilton se lo toglie. A conferma che siamo di fronte a un uomo speciale e a un fuoriclasse raro, il sette volte campione del mondo, intervenendo durante il lancio della Mercedes in vista dell’imminente stagione di Formula 1, ha ribadito le sue convinzioni e ripetuto: «nulla m’impedirà di parlare». In un mondo come quello dello sport, dove prevale la convenienza e l’opportunismo, Hamilton canta fuori dal coro e ancora una volta si schiera.
«Dirò quello che voglio, come ho sempre fatto». La questione (non) è semplice: la Fia da quest’anno ha introdotto il divieto per i piloti di rilasciare dichiarazioni politiche, personali o religiose. Troppo alto il rischio di scivoloni, gaffes, frasi che i potenti del Circus ritengono inopportune e che possono innescare polemiche. È la dura legge dello sponsor. E dunque: secondo la Fia i piloti devono richiedere l’autorizzazione prima di esprimersi su questo o su quell’argomento che non sia il motore, i giri di pista, la tenuta dell’automobile. Lewis Hamilton ha fatto spallucce. «La Formula 1 non metterà mai il bavaglio a nessuno. Penso che tutti i piloti siano stati molto allineati sulla libertà di parola. Ho saputo di questo divieto durante la pausa invernale, ma nulla m’impedirà di parlare delle cose che mi appassionano e dei problemi che ci sono». Come ha sempre fatto, del resto. Hamilton non si è mai tirato indietro quando si è trattato di affrontare tematiche delicate, dal razzismo all’identità di genere, dall’ambiente alle guerre in giro per il mondo.
A sostegno del campione inglese sono arrivati altri piloti, da Verstappen a Bottas, ma la categoria si è già divisa. Ci sono anche gli allineati alle regole della Fia. Che preferiscono evitare problemi e starsene zitti. «Noi abbiamo una grande opportunità grazie alla posizione che ricopriamo con il nostro sport, che è sempre più globale e multiculturale» ha spiegato Hamilton. «Stiamo parlando di venti piloti, dieci squadre e molti sponsor, che hanno idee diverse, opinioni diverse. Io non posso dire che uno abbia ragione e uno torto, ma è giusto, se necessario, dare loro una piattaforma per discutere le loro opinioni in modo aperto. Non cambieremo certo il nostro approccio».
Non più tardi di due anni fa Hamilton aveva replicato a muso duro al brasiliano tre volte campione del mondo Nelson Piquet, che l’aveva definito «un piccolo negro». «Queste mentalità arcaiche devono cambiare e non devono avere posto nel nostro sport», aveva detto. «Sono stato circondato da questi atteggiamenti e preso di mira per tutta la vita. Ho avuto tutto il tempo per imparare». E anche quando indossò il casco arcobaleno a sostegno della comunità Lgbtqi+, durante il gran premio dell’Arabia Saudita – un Paese che punisce l’omosessualità con il carcere e la fustigazione –, Hamilton aveva sottolineato ancora una volta, con la sua battaglia, l’importanza dei diritti civili nella società odierna. Così come, per lui, unico pilota di colore in Formula 1, il sostegno a Black Lives Matter è stata una scelta consapevole, maturata nella quasi solitudine in un Circus che – come tante altre volte – si è girato dall’altra parte.