di Marco Consoli («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 3 agosto 2018)
Quando il 12 agosto dell’anno scorso il neonazista James Alex Fields Jr. si è lanciato con la sua auto sulla folla che protestava contro il raduno dei suprematisti bianchi a Charlottesville, uccidendo Heather Heyer, 32 anni, e ferendo altre 19 persone, Spike Lee ha pensato che doveva reagire. «Ho chiamato la madre della ragazza, Susan Bro» racconta il regista.«E le ho chiesto di poter inserire le immagini di quell’omicidio nel mio nuovo film. Ho fatto quanto avrebbe dovuto fare quel figlio di puttana alla Casa Bianca, che non ha preso una posizione netta contro i razzisti. La cosa non mi sorprende, perché il mio Paese è stato costruito sul genocidio dei nativi e la schiavitù dei neri, ma è arrivato il momento di alzare la voce e prendere una posizione. E non mi frega niente delle critiche, perché so di essere dalla parte giusta della storia». Spike Lee è incazzato, oggi a 61 anni come lo era nel 1989, quando portò al Festival di Cannes Fa’ la cosa giusta, sullo scontro tra “negri” e “mangiaspaghetti” nella sua Brooklyn. Paradossalmente però BlacKkKlansman, il nuovo film per cui lo incontriamo a Cannes (dove ha vinto il Grand Prix della giuria), è il meno personale di una lunga lista di pellicole dedicate alle tensioni razziali nel suo Paese, da Jungle Fever a Malcolm X, 4 Little Girls, Aule turbolente e Bamboozled. «Un giorno mi ha chiamato Jordan Peele (il regista di Scappa. Get Out, N.d.R.) e mi ha proposto di adattare l’autobiografia di Ron Stallworth, un poliziotto nero che nel 1979 riuscì incredibilmente a infiltrarsi nel Ku Klux Klan» racconta Lee, che domenica 5 agosto presenterà il film al Festival di Locarno. «Col mio collaboratore Kevin Wilmott ho riscritto la sceneggiatura, per cercare di trovare un collegamento tra quell’epoca e la nostra. Ma allora non immaginavo che dopo otto anni di presidenza Obama, saremmo ritornati indietro. Quando ho sentito Trump dire che avrebbe potuto sparare a un uomo sulla Quinta Strada e sarebbe stato eletto lo stesso, ho pensato si stesse sbagliando. Purtroppo aveva ragione e paradossalmente la sua elezione ha reso questo film ancor più necessario». Nonostante i collegamenti con l’attualità e i richiami a Charlottesville, BlacKkKlansman, che sarà sui nostri schermi dal 27 settembre, è ambientato appunto sul finire degli anni Settanta, quando Ron Stallworth, appena entrato nel dipartimento di polizia di Colorado Springs e desideroso di lavorare in incognito, viene incaricato di tenere d’occhio un gruppo di attivisti neri. Nel frattempo risponde anche a un annuncio che cerca di reclutare nuovi membri del Ku Klux Klan: riesce a ottenere un appuntamento, ma per non far saltare la copertura viene inviato il suo collega ebreo Flip Zimmerman (Adam Driver), chiamato a interpretarlo per gli incontri vis-à-vis. Nel frattempo Ron, al telefono dalla stazione di polizia, conduce l’indagine e cerca di organizzare un incontro con il Gran Maestro del Kkk, David Duke (Topher Grace). Il duo di sbirri, sempre più affiatati e impegnati a non contraddirsi l’un l’altro, prova a incastrare il gruppo di suprematisti che sta preparando un’azione violenta contro gli afroamericani. «Questo è ciò che è sempre accaduto ai neri da quando i nostri antenati hanno messo piede in America».
È per questo che ha voluto aprire il film con la scena dei soldati feriti sotto la bandiera confederata in Via col vento?
«Volevo trovare una connessione storica e usare un film molto popolare in cui gli elementi razzisti appaiono sullo sfondo. Quella scena è celebre e ha ispirato tanti registi. Se avessi voluto essere più diretto avrei potuto usare Nascita di una nazione, che alla scuola di cinema a New York mi fu presentato come un capolavoro tecnico, sorvolando sul fatto che il film fu usato come mezzo di propaganda per reclutare membri del Ku Klux Klan. C’è un motivo per cui il presidente Wilson quando lo vide nel 1915 lo paragonò a un fulmine, perché si tratta di un’opera potente, capace di influenzare le persone. Sa perché gli Usa sono la prima nazione al mondo?».
Perché?
«Non per le testate nucleari, ma perché detengono l’arsenale culturale più potente al mondo: Levi’s, Apple, Nike, il blues, il jazz, il rock and roll, i film, la televisione. Quando riesci a influenzare come la gente si veste, parla, agisce in tutto il mondo, hai uno strumento più efficace di una bomba».
Quindi crede che il cinema abbia il potere di influenzare le masse?
«Di sicuro andrò nella tomba pensando che l’arte può cambiare il mondo. Perciò spero che questo film svegli le persone a ogni latitudine. Perché non siamo solo noi ad avere Trump, le destre si sono risvegliate dappertutto, e il razzismo è tornato più forte che mai, basta vedere cosa è accaduto con la Brexit».
Dai tempi di Fa’ la cosa giusta il pianeta è diventato sempre più globalizzato e nelle metropoli vivono persone di ogni razza. Perché secondo lei il razzismo non muore mai?
«Se avessi avuto la risposta l’avrei detta in Fa’ la cosa giusta, che all’epoca fu accusato proprio di non fornire soluzioni. Ma quel film, come del resto questo, voleva suscitare un dibattito. L’elemento in comune tra ieri e oggi è come la paura del prossimo, dell’immigrato, del diverso, venga usata ovunque dalla classe politica per acquisire potere. In fondo la ricerca di un capro espiatorio è nella natura umana: quando qualcosa non va è sempre più facile accusare qualcun altro che capire i veri motivi all’origine dei problemi».
Mi sembra una riflessione piuttosto pessimistica sul futuro.
«Al contrario, ho molta speranza. Per esempio nelle nuove generazioni».
Qualcuno però dice che i giovani di oggi non sono altrettanto impegnati come i movimenti degli anni Settanta che si vedono in BlacKkKlansman.
«Non sono assolutamente d’accordo, i ragazzi di oggi sono altrettanto motivati nell’essere coinvolti in movimenti politici e di protesta. Basta vedere come si sono organizzati contro la lobby delle armi dopo la strage nel liceo di Parkland dello scorso febbraio. Ovviamente condivido in pieno la loro lotta».
Nonostante il film tratti un argomento drammatico è felicemente venato di humour. Come mai ha scelto questa chiave?
«L’umorismo è essenziale per parlare di cose serie, anche se non mai è facile bilanciare dramma e commedia. Però non sono certo il primo a tentare di alleggerire dei drammi. Provi a pensare a cosa ha fatto Kubrick con Il dottor Stranamore o Billy Wilder con Stalag 17 e L’asso nella manica, trai miei film preferiti di sempre. lo ho sempre cercato di usare l’ironia nei miei film, come in quella scena in cui Malcolm X in carcere comparava nel dizionario la definizione di nero, associata a ogni possibile significato negativo, a quella di bianco che evocava solo valori positivi».
A esaltare i toni della commedia la aiuta molto l’attore protagonista, John David Washington. Cosa l’ha spinta a scritturarlo?
«Per la parte di Ron volevo lui, non gli ho nemmeno chiesto di fare un provino, perché mi aveva impressionato nella serie tv Ballers. A dire il vero però lo conosco fin da bambino, ha esordito proprio con me in Malcolm X, in un piccolo ruolo, al fianco di suo padre Denzel, e l’ho visto crescere, maturare, anche come attore. Guardando il suo talento si può dire che vale il detto secondo cui la mela non cade mai troppo lontana dall’albero».