di Moris Gasparri (ilfoglio.it, 7 agosto 2021)
Il primo studioso a essersi confrontato in profondità con la definizione del concetto di sport è lo storico americano Allen Guttmann, nel suo celebre saggio Dal rituale al record. Seguendo le note tesi del grande sociologo tedesco Max Weber, per Guttmann sport è razionalità allo scopo, misura, calcolo, burocrazie che organizzano e amministrano le competizioni, standardizzazione universale delle regole. Nella sua visione l’agonismo è tutto orizzontale, lo sport un’esperienza figlia della modernizzazione, anzi, un suo prodotto eminente in nulla collegato al mondo antico.
Questa prospettiva, che qualche decennio dopo lo stesso Guttmann rivedrà, ma in una chiave meramente di elencazione storiografica, è vera, ma non appaga. Agli antichi bisogna tornare sempre e ogni volta, anche per comprendere il quarto d’ora che domenica 1° agosto ha stravolto la storia dello sport azzurro. Come spiegare con le categorie moderne della razionalizzazione weberiana quanto vissuto, la sua magia così fortemente contraria a ogni misura e a ogni calcolo? Nell’esibizione rituale delle medaglie olimpiche a favore di telecamere e fotografi (la più famosa di Tokyo 2020 è senza dubbio quella della nuotatrice australiana Emma McKeon con le sue sette medaglie vinte) c’è un dettaglio iconografico a cui prestare attenzione.
Nel retro delle medaglie, al loro centro, è raffigurata in rilievo una Nike, la dea della vittoria nel mondo greco antico, con le sue ali spiegate. È un simbolo che dice poco agli stessi atleti medagliati, che contiene però la via per comprendere in profondità quanto vissuto in questi giorni dallo sport italiano. Le ali sono infatti la chiave di accesso a una verità cui solitamente si presta scarsa importanza. La vittoria atletica (ma anche quella militare) nel mondo antico non era solo un merito individuale dell’atleta. Certo contavano come oggi impegno e sacrificio, passione e dedizione, capacità e forza, ingegno e talenti, ma da soli non bastavano per raggiungere la vittoria, garantita solo dall’accordo con la benevolenza divina (negli eroi omerici la forza magica che concedeva la vittoria agli eroi era definita kydos). Gli stadi di Olimpia e Delfi erano aperti su un lato verso i templi di Zeus e Apollo, la vittoria atletica portava il segno dell’elezione divina, qualcosa che appunto plana dall’alto, e che proprio perché arriva dall’alto non può essere fatta propria per sempre dagli uomini (gli ateniesi, con l’idea di non farla fuggire, arrivarono a venerare una Nike senza ali). Spesso nella raffigurazione la dea della vittoria era accompagnata da un’altra divinità, munita di cornucopia: Tyche, il “caso”.
Nei momenti più alti della sua forza espressiva, lo sport contemporaneo mantiene vivi dei residui di questa forza magica e divina, fattore che contribuisce a spiegare il fascino irresistibile delle grandi vittorie olimpiche. Questo avviene in due modi. Da un lato alcune vittorie producono effetti così grandi ed eclatanti che generano il dubbio di poter essere creati da una forza semplicemente umana; il loro potere si espande, è diffusivo, democratico, e tutti possono partecipare del suo sentimento euforizzante, laddove il “tutti” è oggi la comunità di uno Stato-nazione così come ieri erano le città-Stato della Grecia antica. La serie inanellata da Gianmarco Tamberi non sembra esprimere il riverbero magico di un demone che ne guida dall’alto il riscatto, una grazia divina capace di aiutarlo nello sforzo e trasfigurarlo nella sua luce gloriosa? L’atleta marchigiano non aveva mai saltato sopra quota 2,35 metri dopo l’infortunio del 2016, tantomeno con una serie senza errori. Paradossalmente più la vittoria è rara e unica, più lo stupore prodotto è grande e le emozioni durature. L’unico modo di durare di una vittoria non è nella sua ripetizione, ma nella sua rarità, che ne prolunga il ricordo mitico e la gloria. La doppia vittoria di domenica, e la vittoria di ieri nella staffetta 4×100, dureranno tanto, tantissimo, ed è riduttivo pensarle solo come momenti della storia dello sport italiano, perché sono momenti di storia patria tout court.
Il secondo motivo è l’imprevedibilità. Se c’è un senso del potere della vittoria sportiva per noi spettatori, ma in parte anche per gli stessi atleti, è che i frutti delle sue creazioni non sono nelle nostre mani, e tantomeno nelle nostre menti. Viviamo in società quasi completamente secolarizzate, e certo gli atleti immaginano la gara e il possibile successo; la stessa psicologia dello sport si basa anche sulle tecniche di visualizzazione tanto care ai mental coach, mai tanto protagonisti come in queste settimane. Tuttavia, nell’epoca della misura, del calcolo e della razionalizzazione, il potere della vittoria è qualcosa che solo parzialmente possiamo comprendere con la mente, poiché riposa sempre su un fondo “mistico” e misterioso, legato all’imprevedibilità più assoluta del suo prodursi e manifestarsi. Chi ha seguito la carriera di Marcell Jacobs negli scorsi anni sa quanto fosse difficile pensarlo come un velocista di successo in ambito internazionale, e nemmeno velocista per i primi anni, perché la sua specialità era il salto in lungo, abbandonata per via degli infortuni. Chi ha seguito l’atletica italiana negli ultimi quindici anni sa quanto fosse divenuto difficile già il solo pensare a nostri connazionali nelle finali olimpiche o mondiali.
Dopo quest’affondo nell’antico, merita spendere un’altra riflessione sul tempo presente. È molto frequente in questi giorni di emozioni olimpiche vedere leader e personaggi politici esultare trionfanti per i successi dell’agonismo azzurro, tendenza sempre più diffusa per via dei social, che provoca un meccanismo mimetico per cui anche i politici meno appassionati di sport sono costretti ad accodarsi al giubilo. L’entusiasmo e lo spirito di comunità (sentimenti effimeri) non possono però cancellare un elemento di realtà da affrontare con il giusto spirito critico. Prendiamo come riferimento esemplare la vittoria del quartetto azzurro dell’inseguimento. In Italia, terra in cui il ciclismo su pista è deposito di storia, successi olimpici e memorie come poche altre discipline, e in cui fino agli anni Sessanta molti stadi erano stadi per il ciclismo su pista e il calcio quasi uno sport di “accompagnamento” invernale delle emozioni ciclistiche estive (gli appassionati di “archeologia sportiva” possono visitare Padova, Fiorenzuola, Varese, Lanciano, Carpi etc. per credere) abbiamo un solo velodromo coperto, a Montichiari, vicino a Brescia. È il velodromo in cui negli ultimi anni sono stati costruiti gli ori di Elia Viviani a Rio, e ora dell’inseguimento a squadre maschile, sotto la direzione di un direttore tecnico visionario come Marco Villa (sono sempre troppo poco raccontati e ringraziati personaggi “invisibili” ma essenziali come lui e la genìa dei direttori tecnici al centro dei successi olimpici di queste due settimane, da Michele Marchesini nella vela ad Antonio La Torre nell’atletica, o Claudio Nolano nel taekwondo), che ha raccolto i cocci di uno sport che ad Atene, Pechino e Londra aveva raccolto la bellezza di zero medaglie.
Suddetto velodromo tra il 2017 e il 2019 è stato a lungo inagibile a causa di infiltrazioni di acqua piovana, in un rimpallo di responsabilità per riparare alla situazione che ha generato uno stallo infinito, poi sbloccato solo per l’imminenza dell’appuntamento olimpico, con gli atleti azzurri costretti spesse volte a riparare all’estero per allenarsi, nel disinteresse generale. Bisogna sempre tenere a mente una cosa non secondaria: con qualche eccezione, e in un percorso che assomiglia molto a quello di tante realtà imprenditoriali di successo di cui sono disseminate le nostre province, gli ori e le medaglie azzurre arrivano nonostante il sistema politico-amministrativo-educativo-culturale italiano, non grazie a (non parlo di finanziamenti pubblici allo sport di alto livello, perché ci sono ovviamente, ma dell’insieme di politiche complessive e della cultura diffusa). Come la metafora del calabrone che non potrebbe volare eppure vola, l’Italia riesce a tenere viva la sua tradizione polisportiva vincente, e come nel campo dell’economia dove questa metafora è stata utilizzata, decisivo è il ruolo delle famiglie, di sangue come nel caso di Tamberi padre e figlio, o elettive, come lo staff che da tre anni segue amorevolmente ogni passo di Jacobs, erede per certi versi di quelli che custodì per anni la forza di un campione come Alberto Tomba.
Quando in Francia i campioni vengono ricevuti all’Eliseo, secondo un’usanza da tempo fatta propria anche dai vertici del nostro Stato repubblicano, quello che viene messo in scena è il completamento di un circolo che inizia molto prima con investimenti, politiche mirate, supporto, attenzioni. Da noi il “prima” non esiste (se non per gli atleti, le famiglie e le varie articolazioni del sistema sportivo, dal Coni alle federazioni ai gruppi militari, senza dimenticare le società di base), esiste solo il “dopo” della grande vittoria e del ricevimento in pompa magna, e se le grandi vittorie non arrivano, come accaduto nell’ultimo decennio, nessuno se ne cruccia troppo, perché in fondo l’agonismo non è ritenuto essenziale. Le classi dirigenti politiche poco sanno e poco fanno per lo spirito agonistico (o, a esser maliziosi, talvolta disfanno), il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che pure rappresenta una novità a livello di cultura sportiva perché vi viene fatta esplicita menzione del legame tra sport e politiche pubbliche, non fa cenno allo sport di alto livello, la mentalità comune prevalente è contraria all’agonismo (inteso, come scrivo da tempo sul Foglio Sportivo, nel suo valore educativo, non come mera ossessione di dominio), eppure non solo è proprio il sentimento agonistico coltivato da minoranze a produrre il gaudio supremo della vittoria, ma il vero paradosso è che in poche altre parti del mondo la grande vittoria olimpica è goduta così intensamente come in Italia (forse per la debolezza del nostro spirito civico, di cui parlava Leopardi). Strano, stranissimo Paese il nostro.