di Andrea Signorelli (esquire.com, 5 novembre 2020)
Pochi giorni dopo essersi laureata, tornò nella sua casa in Maryland. Qui, in attesa di trovare un lavoro, iniziò a passare un sacco di tempo su YouTube. Dopo essere accidentalmente incappata in un video molto particolare, l’algoritmo della piattaforma di streaming iniziò a suggerirgliene continuamente di simili. Ore e ore di contenuti raccomandati direttamente da YouTube, che la fecero precipitare sempre più a fondo in quel “buco nero” in cui i video si succedono senza sosta, trasformando una curiosità in un’ossessione e convertendo ai fenomeni più oscuri della Rete anche chi partiva da posizioni distantissime. È quello che è avvenuto – secondo quanto racconta Bloomberg – a Daezy Agbakoba, oggi una delle voci più in vista del suo movimento.Eppure, per una volta, non stiamo parlando delle modalità che hanno portato a credere alla Terra Piatta, a QAnon o alle altre miriadi di assurde teorie del complotto che popolano la Rete. Ma di una ragazza che tramite YouTube ha scoperto la sua enorme passione per il pop sudcoreano. Per gli amici: il K-pop. Questo mix di sonorità vicine alle forme più commerciali di hip-hop, mescolate con una buona dose di pop-rock e condite da balletti in puro stile boy-band, nasce nel 1992. «Per decenni, i funzionari della Corea del Sud hanno frequentemente messo al bando la musica, i film, i libri e i giornali che si facevano portatori di messaggi considerati oltraggiosi o troppo politici», spiega sempre Bloomberg. Poi, però, arrivarono Seo Taiji & Boys: una classica boy-band dal look che ammiccava al punk. La loro partecipazione al più noto talent show del Paese – con una canzone, Nan Arayo, basata su strofe rappate, ritornelli orecchiabili e balletti di gruppo – fu un flop totale. Arrivarono ultimi. I giudici li stroncarono. Diversamente la pensarono però le ragazze e i ragazzi di Seoul e dintorni, che impazzirono per quella canzone e le fecero raggiungere il primo posto in classifica, dove restò al comando per diciassette settimane. A quel punto Seo Taiji & Boys si giocarono il tutto per tutto: fecero uscire una canzone sulla censura e l’oppressione giovanile, sfidando apertamente i funzionari governativi. Quando questi ultimi minacciarono di mettere al bando la musica dei Boys, i giovani coreani scesero in piazza.
Qualche anno dopo, il clima in Corea del Sud era completamente cambiato. In seguito alla crisi finanziaria che aveva colpito le nazioni asiatiche, Seoul intuì che la cultura pop non era da combattere, ma da abbracciare anche come motore per i consumi. E così iniziarono a farsi largo i vari prodotti culturali e di intrattenimento che, da allora, hanno raggiunto tutto il mondo: film coreani di successo (che hanno avuto il loro culmine quest’anno con Parasite, ma che ormai da decenni godono di un vastissimo seguito), videogiochi e soprattutto musica. Per inquadrare rapidamente il fenomeno K-pop, basta fare riferimento agli attuali re del genere: i Bts (Bangtan Sonyedan, ovvero – giuro – “Boyscout a prova di proiettile”) sono stati il primo gruppo dai tempi dei Beatles a raggiungere nello stesso anno il primo posto di Billboard con tre album diversi. La loro tournée d’esordio negli Stati Uniti – poi interrotta dal Covid-19 – sarebbe partita direttamente dagli stadi ed era già sold out. Un ultimo dato significativo è questo: la società che gestisce la band, Big Hit Entertainment, ha deciso di quotarsi in borsa l’ottobre appena passato. Da 820 milioni di dollari, la sua capitalizzazione ha già raggiunto i 4,8 miliardi.
Un fenomeno come il K-pop, per natura, deve tenersi lontano da tutto ciò che può creare controversie. È un po’ la Disney della musica, se volete. Eppure, a pochi giorni dall’omicidio di George Floyd avvenuto a giugno, i Bts hanno postato su Twitter un breve messaggio in supporto di Black Lives Matter, facendo anche sapere di aver donato un milione di dollari per la causa. Nel tweet (che è stato ritwittato un milione di volte) i Bts affermano semplicemente di «essere contro la discriminazione razziale. Condanniamo la violenza. Voi, io e noi abbiamo tutti il diritto di essere rispettati. #BLM». Perché questo tweet? Forse per andare incontro a un momento politico tanto grande da non poter essere ignorato. O forse per il debito che il K-pop ha nei confronti dell’hip-hop – tanto da essere un genere accusato di appropriazione culturale –, che potrebbe aver fatto ritenere al management del gruppo che fosse più sicuro appoggiare Black Lives Matter che ignorarlo. Qualunque sia la ragione, resta il fatto che per tutti gli appassionati del K-pop (soprattutto negli Stati Uniti) questo è stato un momento di svolta.
Daezy Agbakoba, che è una ragazza nera, ha approfittato dell’occasione per lanciare su Twitter l’hashtag #MatchAMillion, in cui chiedeva ai fan di Bts di pareggiare la donazione di un milione di dollari fatta dai loro beniamini. Ci sono riusciti in ventiquattr’ore. Scoperta la loro potenza di fuoco, gli sfegatati fan del K-pop non si sono più fermati e, dopo aver trovato la propria posizione politica, hanno inevitabilmente individuato anche gli avversari da fronteggiare nell’arena dei social network. Che in questo caso non potevano che essere i supporter di Donald Trump, in particolare suprematisti bianchi e complottisti di QAnon. Il loro successo più grande, che ha avuto un’eco mondiale, è andato in scena proprio nel mese di giugno. A Tulsa, città dal grande valore simbolico a causa del massacro di Black Wall Street (che solo da pochi anni è tornato a essere ricordato), ci sarebbe dovuta essere un’enorme manifestazione in supporto di Trump. Si attendevano un milione di partecipanti per un evento che sarebbe culminato nel discorso del presidente, in un’arena da ventimila posti. Doveva esserci il tutto esaurito. E invece alla fine arrivarono solo seimila persone, lasciando un imbarazzatissimo Trump a parlare di fronte a una platea vuota per due terzi. A causare questo storico flop – che è pure costato il posto di lavoro all’ex stratega della Casa Bianca, Brad Parscale – sono stati proprio i fan del K-pop, che hanno prenotato i posti (gratuiti) nell’arena, occupandoli virtualmente, salvo poi non presentarsi. Una campagna organizzata tramite social network, di enorme successo e dal fortissimo impatto mediatico. Che ha fatto rimediare una pessima figura a Donald Trump: uno che passa il tempo a vendersi come uomo forte adorato dalle folle.
Da allora, la sfida con i fan di Trump e i suprematisti bianchi si è combattuta più che altro a colpi di hashtag. Per esempio, quando l’estrema Destra statunitense ha cercato di rendere virale #WhiteLivesMatter si è trovata di fronte a una situazione totalmente fuori controllo: l’hashtag divenne uno dei più popolari di sempre nella storia di Twitter, ma la ragione fu l’invasione di fan del K-pop che associavano a esso immagini e clip di cantanti coreani vestiti in maniera che ai seguaci di QAnon sarà sicuramente apparsa poco consona. In quella occasione l’opportunità di utilizzare Twitter come megafono per istanze di estrema Destra finì nel nulla, trollata da milioni di appassionati di pop coreano. Da allora, questo scontro si è ripetuto più e più volte. E, ogni volta, i fan del K-pop hanno potuto contare su un’armata (“The ARMY” è, effettivamente, il nome ufficiale dei fan dei Bts) estremamente più numerosa di quella di suprematisti bianchi e aderenti a QAnon. A questo punto, non resta che provare a razionalizzare lo scenario che ci troviamo di fronte: giovani appassionati di un improbabile genere musicale si sono trasformati negli acerrimi nemici dei seguaci della più folle teoria del complotto mai concepita. Una guerra che viene tra l’altro combattuta a colpi di hashtag. Se avevate bisogno di un’altra conferma dell’assurdità di questo 2020, eccovela servita.