di Pietro Cabrio (ilpost.it, 16 dicembre 2021)
Nella prima metà degli anni Ottanta il Brasile stava vivendo gli ultimi anni della dittatura militare che governava il Paese dal 1964. I tempi favorevoli per il regime dei generali erano finiti: gli effetti del boom economico che per quasi un decennio — dal 1968 al 1976 — avevano mantenuto la crescita nazionale costantemente al di sopra del 5 per cento annuo si erano esauriti, lasciando spazio a crisi di occupazione, disuguaglianze sempre più marcate e manifestazioni a favore del ritorno della democrazia. Con le proteste nel Nord-Est del Paese nel 1983, larghe rappresentanze di cittadini iniziarono a chiedere di poter eleggere direttamente il loro presidente.
La giunta militare, allora presieduta dal generale Joao Figueiredo, aveva già fatto delle piccole concessioni, come la formazione di nuovi partiti e le prime elezioni legislative, nel 1982. Il regime aveva iniziato un lento processo di democratizzazione, ostacolato però dalle frange più estreme dell’esercito che non avevano intenzione di cedere facilmente il potere. I brasiliani non votavano da vent’anni, decine di milioni di persone nelle zone più isolate e arretrate del Paese vivevano di fatto all’oscuro di tutto. Dopo vent’anni di repressione, anche nei centri urbani più grandi il disinteresse verso la politica era ampio. È in questo contesto che una delle squadre di Calcio più seguite del Brasile, guidata da un campione atipico, aiutò il cambiamento del Paese con un esperimento rimasto unico nella storia del Calcio: la Democrazia corinthiana. Anche allora, come oggi, il Corinthians di San Paolo era una delle squadre più importanti del campionato brasiliano. Nata nel 1910 in un quartiere di operai come prima squadra popolare della città più industrializzata del Paese, alla fine degli anni Settanta era gestita da un presidente istrionico che, pur di mantenere la carica elettiva, candidava alla presidenza moglie e prestanomi. In quel periodo decise anche di puntare tutto su un calciatore richiesto da tutte le grandi squadre del Paese. Sócrates — il cui nome completo era Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira — era il primogenito di una famiglia povera proveniente da Belem, nel Nord-Est del Brasile, a ridosso della Foresta Amazzonica. Il padre, Raimundo, era un tipo intraprendente che passava gran parte del tempo libero a istruirsi come non aveva potuto fare da giovane a scuola. Era un appassionato di testi classici, e da qui il nome dei suoi primi tre figli: Sócrates, Sóstenes e Sófocles.
Quando il primo dei tre era ancora piccolo, il padre riuscì a partecipare e vincere un concorso statale per entrare nella pubblica amministrazione e garantirsi quindi un posto fisso e ben retribuito. Ebbe inoltre l’opportunità di trasferirsi al Sud, la zona più sviluppata del Paese, dove scelse di stabilirsi nei dintorni di San Paolo, a Ribeirao Preto, una città immersa nella natura e all’epoca in piena espansione. Fu lì che Sócrates crebbe e iniziò a giocare a Calcio, che considerava però soltanto un passatempo nelle ore che non dedicava alla sua vera passione, la cultura, intesa però a modo suo. A detta di chi ebbe modo di conoscerlo in quegli anni, Sócrates si dimostrava intelligente e capiva le cose al volo, ma ai libri di scuola preferiva ciò che potevano insegnare le strade della sua città e quello che raccontava la gente che le riempiva. Fu così almeno fino all’università. A diciott’anni venne ammesso con il massimo dei voti in quattro facoltà diverse e scelse l’Università di San Paolo, che aveva una sede distaccata proprio a Ribeirao Preto. Lì però si rese conto di aver preso troppo sottogamba lo studio e che per diventare medico, come aveva sempre voluto, avrebbe necessariamente dovuto impegnarsi di più. Intanto però si dimostrava sempre più bravo a giocare a Calcio. Come tanti altri grandi calciatori brasiliani imparò a giocare crescendo su campi malridotti, fra buche e ostacoli di ogni genere, giovandosi di una scuola che aveva pochi eguali nel resto del mondo. Come calciatore era strano, Sócrates, e lo rimase per tutta la carriera. Era alto e slanciato, ma mangiava poco e quindi era costantemente sottopeso. Aveva gambe lunghe e braccia insolitamente corte e fini. Queste sue caratteristiche, unite a una nota insofferenza verso gli allenamenti più impegnativi, lo costrinsero a pensare a un modo di giocare tutto suo, fatto di pochi tocchi per evitare i contrasti più duri, lanci e passaggi pennellati per far correre i compagni, colpi di tacco per sorprendere gli avversari. Divenne così un giocatore offensivo e poco atletico — almeno all’inizio — ma dotato di una classe rara, impreziosita da un talento innato per il gioco. Nonostante le sue qualità, rimase quasi un decennio nel piccolo Botafogo di Ribeirao Preto, squadra di cui suo padre era consigliere e per la quale debuttò nel 1972. Quella dimensione locale gli permetteva di continuare l’università, e i dirigenti del Botafogo, che lo adoravano per come giocava e per tutte le vittorie che garantiva, gli concedevano di saltare ritiri e allenamenti e di presentarsi alle partite anche con pochi minuti di anticipo.
Nel corso degli anni Settanta la fama di Sócrates si diffuse in tutto lo Stato e raggiunse il picco nel 1977 con la vittoria del torneo statale di San Paolo, il primo importante titolo nella storia del piccolo Botafogo. In quegli anni, fra la laurea in Medicina e il Calcio, Sócrates non prestò particolarmente attenzione alla politica e, anzi, le volte in cui gli fu chiesto qualcosa si disse vagamente favorevole ai metodi repressivi della dittatura, quelli con cui era cresciuto. Ma da persona istruita e curiosa, nato nella povertà e successivamente descritto come sensibile alle ingiustizie, già al Botafogo si distinse per alcune sue iniziative. Quando si allenava portava sempre un quotidiano nello spogliatoio per farlo leggere agli altri giocatori, per esempio, anche se nessuno poi lo faceva. In molti fra i suoi compagni ricordano invece quando, dopo aver portato al successo statale il Botagofo, propose alla squadra di dividere i premi vittoria con tutti i dipendenti, dal massaggiatore alla signora che faceva il bucato, perché le vittorie erano anche merito loro. Erano gli inizi di quella che nei primi anni Ottanta divenne famosa in tutto il Brasile, e poi nel mondo, come la Democrazia corinthiana. Sócrates si trasferì a San Paolo nel 1977 ma gli inizi al Corinthians furono più difficili del previsto. Dopo le liti frequenti che ebbe con dirigenti e tifosi per tante e varie incomprensioni, Sócrates capì che era capitato in un mondo nuovo e che il suo livello di professionismo doveva migliorare. Ma dovevano cambiare anche i rapporti tra club, tifoseria e giocatori, a suo dire trattati da sempre come dei bambini e per questo poco coinvolti. Il pubblico del Corinthians era noto per essere molto esigente: dai giocatori non pretendeva spettacolo a ogni partita, bensì impegno e passione per la squadra. Sócrates si prese la responsabilità di provare a cambiare la filosofia del Corinthians proponendo invece un Calcio di qualità, lui che nel 1982 sarebbe diventato capitano di una delle nazionali brasiliane più offensive e spettacolari di sempre.
I primi tempi furono complicati, ma in quelle difficoltà iniziò a dimostrarsi un leader partendo dalle cose semplici. Quando il Corinthians subiva uno svantaggio, prese l’abitudine di andare a raccogliere il pallone dalla porta e tornare a centrocampo camminando, per dare tranquillità ai compagni e un segnale di fiducia al pubblico. Al secondo anno al Corinthians si scontrò con lo sponsor tecnico, l’azienda brasiliana Topper, perché le due maglie da gioco che forniva mensilmente ai giocatori non bastavano. La squadra ne chiese di più ma l’azienda rifiutò e allora Sócrates propose di scendere in campo con le maglie al contrario, in modo da non far vedere il nome dello sponsor. In questo modo convinse la Topper a fornire più materiale, e per l’allora portiere del Corinthians, Jairo, «da lì divenne il leader della squadra». Durante la sua permanenza al club chiese più volte di essere coinvolto nelle decisioni della dirigenza, almeno quelle sportive, ma sotto la presidenza dell’industriale di origini spagnole Vicente Matheus le sue richieste vennero sempre respinte. Nel 1981 però Matheus fu destituito per irregolarità nella sua elezione e rimpiazzato dal più comprensivo Waldemar Pires. Nella nuova dirigenza entrò a far parte anche il figlio di quest’ultimo, Adilson, uno che aveva appena lasciato il posto nella fabbrica di biscotti di famiglia e di Calcio ne sapeva ben poco. Era però coetaneo dei giocatori, aveva molte idee, era stato un leader studentesco e in più sosteneva apertamente il ritorno del Brasile alla democrazia. Nei primi incontri con Adilson, i giocatori, rappresentati da Sócrates e Wladimir — terzino molto amato dai tifosi e grande sostenitore del Movimento Negro per l’emancipazione degli afrobrasiliani —, spiegarono tutto quello che secondo loro non andava nel club. Adilson suggerì la discussione dei problemi in assemblea per favorire il dialogo con tutti i membri della squadra e il benestare dell’allenatore, l’italo-brasiliano Mario Travaglini, uno benvoluto da tutti.
Da lì in poi la squadra prese l’abitudine di discutere di qualsiasi cosa in queste assemblee, e tutto venne messo ai voti: dall’acquisto di un nuovo giocatore alla durata dei detestati ritiri prima delle partite, fino alle percentuali di compensi, premi e incassi partita. L’esperimento ebbe i suoi alti e bassi, compreso un breve periodo di totale autogestione piuttosto confusionale che portò a batoste memorabili. Sócrates, per sua stessa ammissione, commise degli errori forzando a volte il suo ruolo di leader, ma l’esperimento continuò con il sostegno dei dirigenti e si fece sempre più popolare. La spinta decisiva fu data involontariamente dai consiglieri del club, che ad ogni sconfitta criticavano duramente il modo in cui veniva gestita la squadra, e anche dalle cariche statali più ostili al ritorno della democrazia, che vedevano quel Corinthians come qualcosa di sgradito. I giocatori si resero conto che per continuare nel loro esperimento potevano fare soltanto una cosa: vincere. E lo fecero. Tra il 1982 e il 1983 il Corinthians tornò a vincere il campionato di San Paolo per due anni consecutivi, come non gli riusciva dagli anni Cinquanta. Tra un titolo e l’altro, nel giugno del 1982 la squadra era già talmente forte e popolare che i giocatori scesero in campo con una scritta sulle spalle che diceva «Vota il 15», per invitare al voto nelle prime elezioni legislative sotto la dittatura. Alla finale di campionato dell’anno successivo, si presentarono in campo mostrando un enorme striscione con su scritto: «Vincere o perdere, ma sempre in Democrazia». Nel marzo dello stesso anno un deputato brasiliano, Dante de Oliveira, presentò in parlamento un emendamento costituzionale per istituire l’elezione diretta del presidente. La proposta accumulò lentamente sostegno fino a far scendere in piazza milioni di persone in tutto il Paese. Sócrates divenne uno dei volti della mobilitazione e in una delle sue tante apparizioni tra i manifestanti promise che se l’emendamento fosse passato sarebbe rimasto ancora in Brasile rinunciando all’Italia, dove soprattutto Inter e Roma cercavano di ingaggiarlo fin da dopo il Mondiale del 1982, nel quale il suo Brasile, con Zico e Falcao, era stato eliminato proprio dall’Italia. Per sostenere l’emendamento, i giocatori del Corinthians giocarono in campionato con lacci e fasce gialli, il colore dei manifestanti. Il voto, però, non si rivelò favorevole. Alle due di notte del 17 aprile 1984 arrivò il verdetto: non era passato alla Camera brasiliana perché i favorevoli non avevano raggiunto la soglia dei due terzi necessaria all’approvazione.
Il voto non rappresentò la fine del processo di democratizzazione del Paese, che continuò in tempi più dilatati, ma lo fu invece per la Democrazia corinthiana. Come scritto dal giornalista Andrew Downie in un suo libro su Sócrates del 2018, dopo aver dichiarato davanti a un milione di persone che sarebbe rimasto in caso di approvazione dell’emendamento, quando la proposta venne respinta «si sentì costretto a partire, anche se c’erano poche cose che detestava di più dell’essere monotono e prevedibile». Quell’anno, al Corinthians, Adilson non riuscì a farsi eleggere alla presidenza come successore del padre e tanti giocatori lasciarono la squadra, compreso Walter Casagrande, un giovane attaccante diventato però fin da subito uno dei leader della Democrazia corinthiana, e che poi finì in Italia come Sócrates. Dopo aver rifiutato per anni tutte le proposte ricevute, quest’ultimo accettò una ricca offerta della Fiorentina. In Italia però non andò bene e lì iniziò il suo declino da giocatore, oppresso da un professionismo in cui calciatori come lui, con i loro vizi e atipicità tollerati in altri tempi, erano ormai fuori posto. Si ritirò nel 1989, dopo essere tornato a giocare per alcune stagioni in Brasile. Morì nel 2011, a soli 57 anni, per i danni provocati da anni di abuso di alcol e tabacco a cui neanche l’attività sportiva aveva saputo porre rimedio. La leggenda vuole che, anni prima di morire, Sócrates avesse detto a qualche suo amico di voler morire il giorno della vittoria di un altro titolo nazionale del Corinthians. Quando morì, il 4 dicembre 2011, il Corinthians vinse per la quinta volta il campionato brasiliano unificato. Per Lula, presidente del Brasile tra il 2003 e il 2011, la Democrazia corinthiana «contribuì a far arrivare a un gran numero di persone il messaggio di cambiamento e democrazia di quegli anni, e mostrò l’importanza di quella battaglia». Nel documentario Democracia em Preto e Branco, Sócrates disse: «Quella fu senza dubbio la fase più intensa della mia vita. Come essere umano, persona e attivista è lì che imparai di più».