di Andrea Costanzo (linkiesta.it, 26 ottobre 2019)
Le quarantott’ore più importanti della vita di Tony Blair sono state, con ogni probabilità, quelle comprese tra il 2 e il 3 maggio del 1997. Il venerdì “the Great Persuader” fu eletto Primo ministro del Regno Unito, riportando il partito laburista al governo dopo quasi vent’anni di attesa. Il giorno seguente il suo Newcastle United vinse 1-0 ad Highbury contro l’Arsenal, ipotecando di fatto la qualificazione alla prima Champions League della sua storia.Due giorni memorabili per Blair, che entrò a Downing Street anche grazie al pallone. Il rapporto tra la politica e il calcio venne, infatti, coltivato con cura negli anni precedenti alle elezioni del ’97. Furono Peter Mandelson e Alastair Campbell, i responsabili della comunicazione del partito, a capire prima e meglio degli altri che attraverso il football sarebbe stato possibile veicolare al grande pubblico i princìpi progressisti del nuovo partito laburista. Dopo la parentesi buia degli anni Ottanta – segnati dalla violenza degli hooligans e dalle tragedie dell’Heysel e di Hillsborough – il calcio era tornato ad essere socialmente accettabile.
I tifosi non erano più “the enemy within”, come li definiva Margaret Thatcher, teppisti storditi dall’alcol, senza lavoro e senza futuro. Ora sugli spalti degli stadi si sedevano (!) le famiglie della buona borghesia britannica. Il ritorno dei club inglesi nelle competizioni europee, la semifinale raggiunta dalla Nazionale durante i Mondiali del 1990 grazie alle prodezze di Paul Gascoigne e, soprattutto, la nascita della Premier League – la nuova lega calcistica inglese fondata nel 1992 – avevano dato al football un ruolo chiave nella narrazione della Cool Britannia.
Questo nuovo ordine calcistico, di cui la Premier era il simbolo scintillante, diventò uno dei modelli di riferimento per il New Labour di Blair, che all’inizio degli anni Novanta puntava ad un elettorato più ampio rispetto al tradizionale bacino laburista. Nel calcio che si risollevò dal disastro di Hillsborough avvenne, infatti, un lento ma costante cambiamento nella composizione sociale del pubblico sugli spalti: dai lavoratori non qualificati della working class (da sempre sostenitori laburisti) si passò ai professionisti affermati della classe media (tradizionalmente elettori del partito conservatore). Come la Premier League, anche la “Terza Via” blairiana puntava ad unire le comunità rurali con le élite cittadine, a conciliare il locale con il globale e ad affiancare la responsabilità sociale al libero mercato.
Un compito apparentemente impossibile che però il calcio inglese svolse alla perfezione nel giro di un paio di stagioni, grazie soprattutto all’arrivo di tre calciatori e un allenatore stranieri. Eric Cantona, Dennis Bergkamp e Gianfranco Zola sbarcarono in Premier League dopo essere stati scartati da altri campionati. Tutti e tre diventarono i giocatori chiave delle loro squadre, interpretando un ruolo – quello del trequartista schierato dietro le punte – fino ad allora sconosciuto in Gran Bretagna. Il football d’Oltremanica aveva infatti sempre guardato con sospetto al cosiddetto “deep-lying forward”, una posizione stravagante per un calcio in cui la fantasia era garantita dalle ali tecniche e creative come Stanley Matthews e George Best. Persino Paul Gascoigne, il giocatore più talentuoso della sua generazione, veniva considerato dagli addetti ai lavori come un numero 8 piuttosto che un 10. L’impatto di Cantona, Bergkamp e Zola sulle difese inglesi fu devastante, grazie alla loro capacità di sfruttare lo spazio tra difensori e centrocampisti avversari, nel quale i tre avevano tutto il tempo di tenere il pallone tra i piedi e sviluppare la manovra offensiva.
L’ideologo di questa rivoluzione tattica fu Arsène Wenger, arrivato sulla panchina dell’Arsenal nel 1996 e capace, fin dalla sua prima stagione, di riportare in alto i Gunners (che videro sfuggire la qualificazione in Champions proprio a causa di “quella” sconfitta contro il Newcaste durante “quella” memorabile due giorni d’inizio maggio). Il tecnico alsaziano contribuì più di ogni altro a stravolgere i vecchi schemi del calcio inglese, introducendo un nuovo stile di gioco fatto di tecnica, possesso e scambi nello stretto.
Wenger capì che il modo migliore per sfruttare le eccezionali capacità di Bergkamp era quello di schierarlo dietro ad una prima punta molto rapida, capace di attaccare la profondità ad una velocità supersonica (prima Ian Wright, poi Thierry Henry). Così facendo le difese avversarie erano costrette a difendere basse, e l’olandese (anche grazie al lavoro di Patrick Vieira ed Emmanuel Petit a centrocampo) disponeva dello spazio e del tempo necessari per realizzare i gol e gli assist che permisero all’Arsenal di interrompere il dominio del Manchester United di Sir Alex Ferguson e di vincere la Premier League del 1998. Una vittoria per molti versi simile al trionfo elettorale del New Labour. Così come l’Arsenal (fondato a metà dell’Ottocento dai lavoratori del Royal Arsenal di Woolrich), anche il partito laburista era nato per rispondere alle esigenze della classe operaia. Ed esattamente come i Gunners (che dopo i successi degli anni Trenta e Quaranta finirono per diventare il club più conservatore e noioso d’Inghilterra), anche il Labour scontò la sua incapacità di rinnovarsi con decenni d’irrilevanza politica.
Il nuovo Arsenal di Wenger e il nuovo Labour di Blair erano, invece, i simboli di quella rivoluzione borghese che trasformò il calcio e la politica britannica durante gli anni Novanta. Secondo Philip Collins, lo speechwriter di Blair, «la rinascita del calcio inglese ha molto in comune con quella del partito laburista. Entrambe furono guidate da un processo d’imborghesimento studiato a tavolino. Il football fu rivoluzionato dalla nascita della Premier League, dalla quotazione dei club in Borsa e dalla crescente importanza del merchandasing e dell’hospitality all’interno degli stadi». Il partito, dal canto suo, iniziò a sganciarsi dai vecchi tabù ideologici, dai sindacati e dalla concertazione collettiva, concentrandosi invece sulle aspirazioni del singolo individuo, da coltivare all’interno di una comunità solidale in cui il governo laburista potesse finalmente creare nuova ricchezza oltre a limitarsi a ridistribuirla.
Per Owen Jones, columnist del Guardian e autore di Chavs, un saggio sulla scomparsa della working class britannica, Blair è colpevole di aver proseguito l’opera di smantellamento della classe operaia iniziata dalla Thatcher durante gli anni Settanta. Il leader laburista ha cercato di trasformarla – attraverso il flusso di denaro proveniente dalla City – in una middle class sempre più ampia da cui attingere i voti necessari per i futuri successi elettorali. Un incantesimo che si è interrotto nel 2010, quando i Tories sono tornati al governo dopo tredici anni di dominio laburista. Le cause di quella sconfitta – un’ambizione smisurata che si è trasformata, nel tempo, in presunzione e che ha provocato lo scollamento tra l’élite del partito e la cosiddetta “middle England” – non sono mai state rielaborate e sono alla base delle recenti batoste elettorali. Alastair Campbell ha ammesso che alcune scelte comunicative del New Labour hanno contribuito a far germogliare i semi del malcontento popolare che ha portato a Brexit ed ha consegnato il partito nelle mani incerte di Jeremy Corbyn.
È la stessa hybris che rischia di mettere in discussione l’egemonia calcistica della Premier League, diventata terra di conquista degli oligarchi russi, dei fondi finanziari americani e degli sceicchi sauditi. La disaffezione che oggi separa l’elettorato dal partito laburista è, infatti, la stessa che sta allontanando i tifosi (soprattutto quelli delle squadre del Nord post-industriale come Manchester United, Newcastle e Sunderland) dai loro club. Nella Premier dominata dai brand globali si sta sciogliendo il legame che univa il pallone alle comunità locali, passate in secondo piano a causa dei contratti televisivi da miliardi di sterline con cui il calcio inglese viene esportato in ogni angolo del pianeta. Biglietti sempre più cari e calciatori sempre meno legati ai club di appartenenza sono lo specchio di uno sport che – come accaduto al Labour – rischia di perdere il contatto con la realtà del Paese.