di Stefano Pistolini («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 29 settembre 2017)
Non è un caso che l’assenza di Randy Newman dalla scena della canzone americana, della quale è uno dei maestri riconosciuti, sia durata quanto il doppio mandato di Barack Obama. Progressista convinto e polemista professionale, durante questi otto anni Randy deve essersi sentito soddisfatto.Al punto da lasciar fare all’inquilino della Casa Bianca, senza interloquire con canzoncine di tagliente satira come fu, ad esempio, la Mr. President con cui nel ’74 implorava Richard Nixon, per quanto potesse mentire e imbrogliare, «d’avere pietà del lavoratore americano». Durante questo sabbatico, Newman si è occupato d’arricchire il suo conto in banca, firmando con la Pixar un lucroso contratto per colonne sonore sul genere di Cars 3. Nel frattempo Donald Trump è calato come un’astronave nel quotidiano dei suoi connazionali e al 73enne losangelino dev’essere sembrato tornato il tempo d’affilare le armi poetiche e melodiche, per dar vita a una nuova collezione di canzoni sotto forma di album. Che ha preso il nome di Dark Matter e che – sebbene all’ultimo minuto Newman abbia lasciato fuori il pezzo dedicato al pene di Trump e alle sue dimensioni, giudicandolo inadatto a un momento storico nel quale la conversazione nel Paese è fin troppo acre – raccoglie un’ampia e varia messe di voci, vicende e personaggi, confermando la sua reputazione come uno dei grandi narratori dell’America d’oggi, anche se il medium sono i pochi versi di una song e non le pagine di un romanzo. Dark Matter, prodotto da Mitchell Froom, ha lo stesso respiro lirico di una raccolta di racconti dalla firma importante – chessò John Irving o Richard Ford. Ci sono pezzi impegnativi, come gli 8 minuti d’apertura di The Great Debate, nel quale in un succedersi di orchestrazioni diverse, dal dixieland alla psichedelia, Newman interpreta tutte le parti d’un immaginario dibattito tra creazionisti e scienziati sulle grandi guerre culturali americane, dalla teoria dell’evoluzione ai cambiamenti climatici. Ma ci sono anche quadri meno coreografati, estemporanei, in puro stile Newman: in Brothers ecco JFK e suo fratello Bobby, colti nel pieno d’una discussione su come risolvere la crisi della Baia dei Porci, che si evolve nella confessione dell’amore di John per la musica della diva cubana Celia Cruz. In On the Beach a parlare è Willie, un homeless che ha passato tutta la vita sulla spiaggia, facendo del surf la sua misura del mondo. Da un perdente patentato come questo, si passa a un vincente seriale come Putin, capace, sulle arie della più ritrita tradizione musicale russa, «di alimentare un reattore nucleare con mezzo emisfero del cervello». E ancora Sonny Boy, omaggio al bluesman degli anni ’40 Sonny Boy Williamson, che dalla tomba e per bocca di Newman racconta quanto sia stato insopportabile vedersi sottrarre l’identità da un imitatore apocrifo. Squarci di come va la vita secondo Randy Newman, in un affresco in cui passato e presente, verità e leggenda si mescolano fino a diventare indistinguibili. E dove il cinismo e il romanticismo, ingredienti essenziali della sua musica, non smettono di giocare a rimpiattino. Suggerendo una visione dell’America come quella di un caos mobile, nel quale il destino è prodotto più dal caso che dalle circostanze. E dove la cosa più importante, da salvaguardare sempre e comunque, è il diritto a produrre le proprie scelte, anche quelle estreme, nella più assoluta libertà.