di Guia Soncini (linkiesta.it, 8 febbraio 2023)
Sono passati trentun anni da quando Corrado Guzzanti e i suoi compari di Avanzi cantavano «e ora che pure Benigni s’è sposato non ci sta più chi ci bestemmia sul mercato», quindi quando ieri mattina Amadeus ha annunciato che ieri sera ci sarebbe stato Benigni a leggere articoli della Costituzione, Benigni con Mattarella, nientemeno, abbiamo tutti pensato: beh, certo, ormai è venerato maestro, mica più in quota comico.
Poi Benigni è arrivato e ci siamo ricordati che ci dimentichiamo sempre che è un signore che c’intrattiene da quarant’anni o giù di lì, e insomma non è che proprio lo metti su un palco e non sa cosa fare, non sa farti ridere e poi passare alle cose serie senza farti sentire il passaggio da un registro all’altro, non sa unire gli articoli della Costituzione e le frasi delle canzonette: è Benigni, mica Rula Jebreal. Poi Benigni, invece di prendere in braccio Chiara Ferragni (vogliamo, dagli artisti che ci piacciono, che a settant’anni siano uguali a com’erano a trenta; poi, se lo fossero, non ci piacerebbero), ha fatto il lavoro sporco di ricordare che ci sono dei Paesi non lontani in cui i dissidenti li avvelenano. Senza il video, la lettera, senza neanche sforare (mica è una qualunque dolente monologhista). Ha detto tutto, fatto tutto, e chiuso in anticipo. Vi faccio vedere come si sta sul palco da professionisti.
Lucio Presta, noi dobbiamo parlare. Lucio Presta, siediti su quella seggiola e ascoltami senza interrompere. Lucio Presta, tu mi hai rovinato il martedì. Tu indirettamente, e direttamente i molti mitomani televisivi che conosco, quelli che gli anni che Sanremo non lo fanno loro la sanno sempre lunghissima. (Lucio Presta, lo dico per chi non ha Google, è il signore che ha organizzato questo e alcuni degli ultimi Sanremo, è anche l’agente di Benigni e soprattutto è la ragione per cui ieri è successa questa cosina: che, per l’esaurimento nervoso di tutti quelli che hanno lavorato in altre danze, in altre stanze, al suo Sanremo c’era Mattarella).
Insomma, io ieri pomeriggio avrei avuto un sacco di cose da fare. E invece l’ho passato al telefono, ad ascoltare gente certa certissima che questo di Mattarella fosse un precedente assai grave, e vuoi che ora la Meloni non dica sabato voglio esserci anch’io. Ma non mi pare la stessa cosa, balbettavo io incredula di conoscere solo deficienti (poi tutto è possibile, in questo mondo assurdo, e sicuramente verrò a stretto giro smentita e la Meloni andrà all’Ariston e costringerà Amadeus a chiudere la serata prima di mezzanotte perché si porta la bambina e le regole Rai dicono che coi bambini non si può fare più tardi). Tu non capisci, dicevano loro. Sanremo mica è la Scala. Nel senso che sono vestiti meno peggio?, chiedevo io. Mi rispondevano come fossi una provocatrice, non avendo evidentemente mai visto come si concia la gente alla prima della Scala, quella sera l’anno in cui Milano pare Vigna Clara. No, ma davvero, spiegatemi perché alla Scala ci può andare Mattarella e a Sanremo no. «Alla Scala ci sono i politici, c’è il sindaco». Ma Sanremo è tutt’un assessore che si lamenta non s’inquadrino i fiori, ma Sanremo non l’avete mai visto?
Non ho niente contro gli autori televisivi, ho molti amici autori televisivi: non hanno capito come funziona Sanremo. D’altra parte Sanremo ci fa scoprire la diffusione dell’inconsapevolezza in tutte le professioni; la Ferragni ha ventotto milioni di follower e gli unici che non abbiano visto i «mi manchi» ai figli rimasti a Milano sono i giornalisti della sala stampa di Sanremo, che prendono la parola per chiedere: i tuoi figli sono qui con te? L’epoca dei dilettanti, per fortuna sono rimasti i Benigni e i Morandi, dio o chi per lui ci conservi le generazioni meno cialtrone. La cosa più struggente di Morandi è che continua a ripetere che finora la Ferragni stava solo nel telefono, e ora finalmente il pubblico la conoscerà: è un uomo così del Novecento che pensa si diventi personaggio pubblico a stare sul palco, mica ad avere una telecamera accesa pure mentre hai le contrazioni.
Lo so, lo so: sono in ritardo di cinquanta righe sull’unica cosa di cui vogliate sentir parlare. Ma no, quali canzoni: non vi ho ancora detto che io durante Sanremo le canzoni le uso come sosta per andare a prendermi da bere? (Bevo molto). Delle canzoni nulla so, solo che c’è un piano antivaccinaro per far vincere Madame, chiunque ella sia. Non so neanche se sia vero, ma sono sempre a favore del pubblicare la leggenda senza verificarla. E mi sono accorta solo della canzone di Blanco solo perché ha smesso di cantare e s’è messo a spaccare vasi: il rock italiano di questo secolo ha preso i vestiti da David Bowie e il garbo da Johnny Rotten. Le canzoni da nessuno (gliele potrebbe imprestare Morandi, che essendo un professionista spazza i cocci lasciati da Blanco): faccio bene ad andare a prendermi da bere.
No, quello di cui volete parlare, lo sappiamo sia io sia voi, è Chiara Ferragni. Che compare in cima alla scalinata di spalle, tipo Rocky nei film. Lo fa per mostrare il secondo dettaglio, ma io comincerei dal primo, quello più folgorante: ha un nuovo taglio di capelli. Vi chiederanno cos’è la spericolatezza, rispondete pure: tagliarsi i capelli il giorno in cui presenti Sanremo. È di spalle perché Maria Grazia Chiuri, la stilista di Dior che già aveva scritto su magliette da 750 euro che dovremmo tutti essere femministi, le ha messo addosso uno scialle con una scritta. La scritta sulla schiena di Chiara inspiegabilmente non dice che dovremmo tutte poterci permettere magliette da 750 euro. Dice: «Pensati libera». Prontamente compare sull’Instagram della Ferragni spiegazioncina contenutista dell’importanza di questo messaggio.
Ne sarà felice quella che in conferenza stampa le aveva chiesto «Come facciamo noi ragazze a credere di più in noi stesse?» (Ferragni essendo Ferragni, cioè una che fattura dicendoci che ha consumi mediocri come i nostri, desideri mediocri come i nostri, pensieri mediocri come i nostri, non le ha risposto: in voi stesse dovete crederci di meno, non di più. Ferragni, essendo Ferragni, la sera dirà alla sé stessa bambina che sbagliava tutte quelle volte in cui non si sentiva abbastanza brava o intelligente. Piccola Chiara, ma pure Chiara grande: il problema di questo secolo è la mitomania, mica la sindrome dell’impostore).
Ora, Chiara Ferragni, noi dobbiamo parlare: i messaggi civili vanno benissimo, ottimi i sestessismi, le assoluzioni a te stessa in forma di letterina, bene tutto. Ti dirò di più: fai bene a dire che il monologo te lo sei scritto da sola, perché una mica può dire a un pubblico di analfabeti «porto me stessa» e poi scostare la tenda di Oz svelando l’esistenza degli autori; in ventotto milioni devono poter continuare a credere che una vada in tv e dica delle cose che le son venute in mente. Guarda, mi faccio andar bene pure il fantasioso concetto di violenza psicologica, nell’abolizione delle gerarchie dei traumi avviata dal MeToo, per cui «un paio d’anni fa, leggendo su Instagram», hai scoperto che se stai con uno che ti guarda la scritta sullo scialle e dice «ma come ti sei conciata» fa punteggio dolenza come stare con uno che ti prende a sberle.
Ti promuovo il pizzino all’ex fidanzato che ti sei tenuta in tasca fino alla mondovisione generalista; e anche l’apparire vestita di nudità, probabilmente pensando al vestito nudo di Carrie Bradshaw ma facendo ricordare a noi vegliarde i beati anni in cui Alba Parietti si presentava in tv con scollature abissali e poi s’innervosiva perché le guardavano i capezzoli invece del cervello. E amo il lapsus, o colpo di genio, con cui dici che quell’abito è legato «a quello che sto per portare»: consapevole che il tuo dolente monologo fosse quanto di più vicino all’argomento a piacere alla maturità. Va bene tutto, chi ha successo ha ragione, e tu per me hai quindi ragione sempre. Ora però, Chiara Ferragni, parliamo di cose serie: da chi vado a farmi tagliare i capelli così?