di Leonardo Bianchi (vice.com, 15 gennaio 2020)
Che lo usiate o meno, ormai è impossibile non essersi imbattuti in qualche contenuto prodotto su TikTok. L’app, che nella sua conformazione odierna è una specie di incrocio tra Snapchat e il vecchio Vine, ha pochissimi anni di vita ma è già esplosa a livello numerico, economico e sociale.
Il social network dell’azienda cinese ByteDance è stato scaricato 1.5 miliardi di volte, è valutato 75 miliardi di dollari, e ha più di 800 milioni di utenti — in larghissima parte giovani e giovanissimi. Funziona, innanzitutto, perché è estremamente coinvolgente: un video (che dura tra i 15 e i 60 secondi) tira l’altro, e moltissime volte finisci a guardare roba che nemmeno ti piace. Per usare le parole della giornalista del New Yorker Jia Tolentino, è una “fabbrica di meme che comprime il mondo in pillole di viralità”. Sul piano contenutistico TikTok è il social di balletti, lip synch e challenge, ma anche uno spazio per discutere della propria identità di genere o salute mentale, di pregiudizi contro le minoranze, cambiamenti climatici e attualità (basti pensare al video virale contro le persecuzioni degli uiguri).
Quanto alla politica, ByteDance sta facendo di tutto per non entrare nella mischia ed evitare gli scandali che hanno travolto Facebook e Twitter (anche se TikTok è già stato accusato di censurare i contenuti sgraditi al governo cinese e di gestire i dati in maniera opaca). Lo scorso ottobre la piattaforma ha infatti vietato ogni spot politico, dicendo che guastano “l’atmosfera leggera e irriverente che rende TikTok un posto così divertente”. Ma questa misura non rimuove il fatto che la politica c’è già su TikTok — basti pensare ai meme di estrema destra negli Stati Uniti, ai contenuti pro-Trump, alle campagne pro-Labour nel Regno Unito o alle proteste in India contro la controversa legge sulla cittadinanza — e probabilmente ci sarà sempre di più, anche per il semplice fatto che sulla piattaforma iniziano ad esserci i politici in prima persona. Pochi, a dir la verità, ma ce ne sono.
In Italia, dopo il fulmineo abbandono di Giorgia Meloni, è rimasto solo Matteo Salvini. L’apertura dell’account del leader della Lega risale al novembre del 2019, e in questi mesi ha pubblicato una trentina di video con i quali ha raggiunto 165mila follower e circa 900mila like. Non siamo ovviamente ai livelli di Facebook (4 milioni di fan), ma per essere aperto da poco i numeri sono buoni. Come rileva una recente analisi di DataMediaHub, andrebbe meno bene sul livello qualitativo. “L’engagement che il leader leghista raggiunge per i singoli post su Tiktok è nettamente inferiore rispetto a quello che ottiene su altre piattaforme social” scrive Pier Luca Santoro, “e ha una connotazione che è nettamente negativa con la maggior parte dei commenti che sono di scherno, o peggio”.
Ogni singolo video — con Salvini che corre in mezzo ai salumi con Run di Awolnation in sottofondo, o che strattona un orsacchiotto sulle note di Jingle Bells cannando il labiale — è, infatti, accompagnato da una sfilza di “Ok boomer” e da inviti a non inquinare TikTok con la sua propaganda. Luciano Spinelli — il tiktoker italiano con più seguito — ha definito il profilo di Salvini “un piccolo spettacolo di pessimo gusto”, aggiungendo che “non basta far parlare di te per esistere, devi anche saper usare gli strumenti che scegli di utilizzare, in modo almeno dignitoso”. Allo stesso tempo, però, gli apprezzamenti stanno crescendo — e non solo in Italia. Alcune clip di Salvini sono arrivate in Spagna, specialmente tra i meme di destra di TikTok e gli account specializzati, e a guardarle bene non sono così diverse da quelle di giovani tiktoker spagnoli di destra.
Insomma: si tratta di un azzardo controproducente, oppure di un tentativo avanguardistico di intercettare le fasce giovanili della popolazione — comprese quelle che neanche votano? Per provare a rispondere ho contattato la professoressa di Comunicazione politica Roberta Bracciale, coautrice di La politica pop online, e il docente di Marketing politico Marco Cacciotto, autore di Il nuovo marketing politico. Entrambi concordano su un aspetto: pur essendo troppo presto per ritenerlo un successo o un flop totale, l’operazione è del tutto coerente con la promozione del “prodotto-leader” già sperimentata su tutti gli altri social — e che costituisce una delle cifre principali della comunicazione politica del XXI secolo.
Da un lato c’è quindi quello che Bracciale descrive come il tentativo di “mettere in atto un processo di popolarizzazione simile a quanto avvenuto con il meme #IoSonoGiorgia, cercando per quanto possibile di gestirlo dal punto di vista comunicativo”; e dall’altro prevalgono logiche di marketing, volte a “vendere” il politico di riferimento e attirare nuovi “consumatori-elettori”. L’intera produzione di Salvini su TikTok è puro self-branding, realizzato attraverso contenuti non esplicitamente politici: il solito cibo, le uscite pubbliche, le scene di vita vissuta, le canzoni e così via. La vera differenza — almeno rispetto a Facebook e Instagram — sta nel tentativo di aderire al linguaggio specifico del social in questione, con i risultati che (visti da fuori, soprattutto) risultano a dir poco alienanti. Tuttavia, sostiene Cacciotto, poco importa che per noi i video trasudino cringe da ogni pixel; del resto, Salvini e il suo staff “non hanno mai badato alla qualità grafica o visiva”. Così come è quasi irrilevante che una parte dell’attuale platea di TikTok reagisca negativamente. “Salvini ha sempre cercato la contrapposizione, e anzi: più c’è polemica, più ottiene visibilità su tutto il resto”, mi dice.
Anche per Bracciale la figura del leader leghista è fortemente “catalizzatrice”, e in quanto tale è in grado di attivare due processi contrapposti: “Da un alto spinge le persone a schierarsi; e dall’altro, in virtù di questa polarizzazione delle audience, radicalizza i suoi follower che ben presto cominceranno a sbarcare su TikTok per supportare il proprio Capitano”. A proposito di polarizzazione, poi, una simile strategia su TikTok ha un altro fine: quello di mantenere la centralità nel ciclo delle notizie. “La polemica alimenta l’attenzione di tutti i media” afferma Cacciotti, “e questo non fa che alimentare il dibattito intorno a una determinata figura. Non si tratta solo di parlare alle generazioni più giovani, ma di monopolizzare l’agenda mediatica con tutti gli strumenti disponibili”.
Di sicuro c’è che Salvini, su TikTok, si sta muovendo in un’autentica prateria. “Il vantaggio è che lui è tra i primi” prosegue il docente di Marketing politico, “e quindi si trova pressoché incontrastato. Magari tra un po’ esploderà la mania [anche tra i politici italiani], ma sarà difficile emergere per quelli che arriveranno dopo”. Questa riflessione solleva inevitabilmente un quesito che va al di là del singolo leader, e probabilmente ricorrerà per tutto il 2020: un politico ha l’obbligo di stare su TikTok, o deve almeno provarci, se vuole sperare di intercettare un certo tipo di elettorato? Qualcuno è convinto che sia una pessima idea, e che TikTok non sia semplicemente adatto alla politica; i due docenti da me interpellati sono invece più possibilisti. Per Bracciale, questo social “può funzionare per aumentare la visibilità e la familiarità con il politico di turno, a patto che si adegui alle regole non scritte della piattaforma”.
Certo, al momento non c’è molto spazio per “il messaggio politico in senso stretto”. Non è detto, però, che TikTok resti per sempre così: la comunità può cambiare con l’arrivo di nuovi utenti, e gli attuali meccanismi possono modificarsi consentendo una propaganda più esplicita e meno respingente. Per Cacciotto la piattaforma è comunque un’opportunità per i politici, poiché dà la possibilità di “comunicare a un pubblico molto giovane, di fornirgli i primi contenuti politici e di far vedere che sei attento. E siccome parliamo di un pubblico che non partecipa ai tuoi eventi e non guarda il telegiornale, devi per forza puntare su strumenti come TikTok”. Il punto, insomma, non è che Salvini stia su TikTok; è che nessun altro politico italiano sia stato lontanamente sfiorato dall’idea di provarci.