di Laura Pezzino (vanityfair.it, 21 ottobre 2020)
«La rivoluzione inizia dai muscoli» è una frase che viene attribuita a Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America. Che l’abbia detta oppure no, Jane Fonda ne ha fatto il proprio motto, stipandovi dentro tutto un arcobaleno di significati riassumibili così: il vero cambiamento incomincia con un’azione che coinvolge il proprio corpo. Poco prima del lockdown, Jane Fonda si era lasciata crescere i capelli bianchi e, col senno di poi, non avrebbe potuto scegliere momento migliore. Per lei, cambiare taglio o pettinatura non era mai stato un atto neutrale, anzi.
Era stata lei stessa a chiamarle hair epiphanies (epifanie dei capelli), la prima delle quali si era verificata alla fine degli anni Sessanta, quando, tornata dalla Francia, dove aveva sposato il regista Roger Vadim, padre di sua figlia Vanessa, aveva deciso di piantarla con i capelli lunghi da sex symbol e, da un barbiere del Village, si era inventata il taglio shag – quello del Keith Richards dei tempi d’oro, per intenderci. Quei capelli un po’ spettinati, che sembravano semplicemente tagliati male, in realtà dicevano molto: basta con la favola della moglie e attrice-trofeo e con quella della figlia compiacente di Henry, mito del cinema hollywoodiano ma, soprattutto, padre-ombra dopo il suicidio della moglie Frances. Così Jane aveva deciso di diventare attivista. «Avevo lasciato Vadim non per un altro uomo, ma per un’idea», dirà nel documentario Jane Fonda in Five Acts (2018), anche se poi le idee si moltiplicheranno: dopo il Vietnam (dove una visita nei campi dei vietcong le era valso il soprannome di “Hanoi Jane”) verranno i Nativi Americani, le Black Panthers, il femminismo, l’Iraq e così via.
Da quella primigenia hair epiphany è trascorso mezzo secolo, durante il quale di acque ne sono transitate moltissime. Elenchiamo soltanto: due Oscar come miglior attrice, altri due mariti – l’attivista Tom Hayden e il magnate della Cnn Ted Turner, lasciato nel 2001 –, il figlio Troy, film, serie tv, campagne sociali, e la famosa serie di video di aerobica che l’hanno resa ancora più famosa ma non più ricca (poi capiremo perché). Oggi, alla soglia degli 83 anni, Jane Fonda si definisce un’attivista e una femminista. Esattamente un anno fa, con un gruppo di amiche, ha dato vita a una serie di azioni dimostrative sotto il nome di Fire Drill Fridays (i fire drill sono le esercitazioni antincendio) di fronte al palazzo del Campidoglio a Washington, per le quali è stata arrestata cinque volte. I media di tutto il mondo l’hanno ripresa con i polsi ammanettati, trionfante nel suo bel cappotto rosso (lo aveva appena comprato a una svendita di Neiman Marcus e non aveva avuto il tempo di scucire le tasche, cosicché aveva dovuto infilare soldi e patente nel reggiseno), che presto sarebbe diventato leggenda, spopolando anche come costume di Halloween.
Jane ha raccontato l’appassionante e divertente nascita (in cella a un certo punto si mette a fare gli squat contro il muro perché «bisogna sempre cogliere l’occasione») di questo movimento, che oggi conta un milione di sostenitori, in un libro appena arrivato in Italia, Salviamo il nostro futuro!, dove scopriamo che l’idea di lanciare i Fire Drill Fridays le era venuta leggendo Il mondo in fiamme di Naomi Klein. In particolare, a colpirla era stata la descrizione che la giornalista canadese aveva fatto di Greta Thunberg. Scrive Fonda: «Con il suo sguardo privo di filtri, Greta aveva visto la verità. Per usare le sue parole, noi ci dovremmo comportare come se la nostra casa fosse in fiamme, come se ci trovassimo nel pieno di un’emergenza. Perché è esattamente questo che sta accadendo».
Signora Fonda, dov’è finito il cappotto rosso?
«Nell’armadio. È ancora troppo caldo per indossarlo, ma quando potremo uscire di nuovo lo indosserò di sicuro».
È vero che quello sarà l’ultimo capo di abbigliamento che si comprerà?
«Sì. L’ho deciso dopo aver letto la parte del libro di Greta Thunberg, La nostra casa è in fiamme, che si intitola Stop shop. Come lei, voglio provare a dire basta al consumismo che modella le nostre identità. Abbiamo problemi molto più importanti e non possiamo continuare a usare lo shopping per distrarci. Dobbiamo affrontarli».
Ricorda quando è diventata attivista?
«Negli anni Sessanta ho vissuto alcuni anni a Parigi, dove una delle persone che frequentavo di più era Simone Signoret [attrice francese, premio Oscar nel 1960 per La strada dei quartieri alti, N.d.R.]. È stata lei a insegnarmi la storia del Vietnam ed è stata sempre lei a invitarmi alla mia prima manifestazione contro la guerra, dove ricordo che intervennero anche Simone de Beauvoir e Sartre».
Oggi si sente un’attivista diversa da “Hanoi Jane”?
«Sono più vecchia di cinquant’anni e spero di essere diventata un po’ più saggia. Ho più esperienza e ho imparato molto dagli altri attivisti e dai libri che ho letto. Di sicuro sono meno impaziente. Quando ero giovane pensavo che essere un’attivista fosse simile a uno sprint: correre velocissimo e finire subito. Poi, più in là, ho cambiato idea, e ho creduto che fosse più una maratona, perciò ho cercato d’imparare un ritmo che fosse mio. Ora che sono davvero vecchia, ho capito che è una staffetta: io cerco di fare il meglio che posso, ma poi devo passare il testimone a qualcun altro».
A chi?
«Ai milioni di giovani in tutto il mondo che l’anno scorso hanno alzato la voce per accrescere la consapevolezza generale sulla crisi climatica. È stata una cosa enorme. Quando gridavano “non lasciateci soli, non siamo stati noi a causare tutto questo” non si poteva non pensare che avessero ragione. Mi sono detta: devo fare di più. E c’è una cosa che voglio aggiungere riguardo all’attivista che sono oggi: rido molto di più».
Intende dire che è più ironica?
«No, intendo… Ero così vecchia quando avevo vent’anni. Mio Dio! A trenta, poi, quando sono diventata attivista, non sorridevo mai, avevo iniziato questa cosa ed era tutto molto serio, pesante. Ora, invece, so che quello che importa veramente è fare del proprio meglio. Allora potrò morire in pace, guardare i miei nipoti negli occhi e dire: “Ho fatto tutto quello che potevo”».
Lei si è definita un “ripetitore”, come una di quelle mega-antenne posizionate sulle colline affinché diffondano i segnali che ricevono. Ha anche detto che tutte le celebrity lo sono. Pensa che sia vero ancora oggi?
«Sì. È il motivo per cui Joe Biden si è rivolto a donne come Kerry Washington, Eva Longoria e Scarlett Johansson perché lo sostenessero. È stato intelligente a scegliere proprio loro che sono donne intelligenti e popolari. Avere delle celebrity dalla tua parte può essere molto utile».
Lei è una “Elizabeth Warren girl”. Che cosa pensa di Biden-Harris?
«Mi piacciono, e sto lavorando per loro. Conosco molti giovani che dicono: “Biden non è Bernie Sanders, non ha la sua nuova grande visione del mondo”. Ma io rispondo: “Pensate bene a chi votate perché, chiunque verrà eletto, dal giorno successivo bisognerà rimboccarsi le maniche e provare a forzarlo a fare cose che, magari, non vuole fare. Quindi non è meglio provare a smuovere un uomo di centro, piuttosto che avere a che fare con un fascista?”. Dico a tutti: votate per Biden, perché con lui possiamo lavorare».
Lei ha detto di avere una certa “empatia” per Donald Trump perché in qualche modo le ricorda il suo terzo marito Ted Turner, fondatore di Cnn. È vero?
«Non voglio che passi l’idea che Ted e Trump siano simili. La mia impressione, però, è che entrambi abbiano subìto un trauma da bambini. Su Trump, e sul fatto che la causa sia stata il padre, mi sono convinta soprattutto dopo avere intervistato sua nipote Mary ai Fire Drill Fridays. E poiché queste persone traumatizzate di solito sanno parlare un unico linguaggio, quello delle “cattive azioni”, penso che ciò che dobbiamo odiare non siano tanto le persone in sé, quanto le azioni che compiono. Altrimenti vincono loro. L’odio è tossico, fa male solo a noi. Quindi, sì, sono dispiaciuta per lui anche se odio quello che fa».
Ha avuto altri contatti con i Trump?
«Conosco bene gli uomini traumatizzati e so che hanno bisogno di essere adulati e che amano le belle donne. Perciò, poco dopo le elezioni del 2016, ho pensato: adesso metto insieme un gruppo di donne bellissime, famose, sexy e che si interessano al clima, organizzo un incontro con Trump, ci mettiamo tutte in ginocchio e lo imploriamo: “Se salverai il pianeta e fermerai il cambiamento climatico, diventerai il più grande eroe nel mondo e sarai amato da tutti”. Ho pensato che delle belle donne avrebbero potuto convincerlo. Così, ho chiamato sua figlia Ivanka per parlarle di questa idea. Lei si è messa a ridere e mi ha detto che ci avrebbe riflettuto. Non l’ho mai più sentita. Certo, era un’idea un po’ folle ma in quei giorni mi sentivo davvero folle».
Sia il presidente Nixon, ai tempi delle proteste contro il Vietnam, sia Trump, quando l’hanno arrestata l’hanno presa in giro per il suo attivismo. Si sente di fare un paragone tra di loro?
«Trump è molto più pericoloso. Non c’è modo di ragionare con lui, non ha il senso delle istituzioni, delle leggi e dei valori. Non capisce la Storia. Non gli importa di nulla se non di sé stesso e dei soldi. C’erano molte cose che non mi piacevano di Nixon, tipo la sua crudeltà, ma era uno che capiva la Storia e che non voleva distruggere la democrazia, come invece vuole chiaramente fare Trump».
È vero che alla base dei suoi famosi video di aerobica, che le fruttarono diciassette milioni di dollari, ci fu la necessità di raccogliere fondi per delle campagne organizzate da lei e dal suo marito di allora, Tom Hayden?
«In realtà avevo sempre fatto esercizio fisico perché mi faceva sentire bene. Diciamo che in quel caso sono riuscita a combinare l’attivismo politico con la vanità». Ride.
Al centro del suo libro c’è il Green New Deal, un piano di riforme sul clima presentato nel 2019 dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez e dal senatore Ed Markey. Quali sono, a suo avviso, i punti più importanti?
«Innanzitutto, si tratta di un documento di quattordici pagine che racchiude una visione. In sostanza dice che il governo americano dovrebbe spendere una grandissima somma di denaro per creare posti di lavoro nel settore dell’energia sostenibile, non solo pannelli solari o pale eoliche, ma anche tutela delle risorse idriche e ristrutturazione degli edifici esistenti affinché raggiungano il massimo dell’efficienza energetica. Il nostro Paese non è preparato per affrontare l’emergenza climatica, ci sono ancora moltissime cose che vanno fatte, ma lo Stato deve decidersi a investire miliardi di dollari come del resto ha fatto questa primavera con il Covid, dimostrando che quando c’è un’emergenza i soldi si trovano. La crisi climatica può non essere evidente come una pandemia, ma è un’emergenza. Il Green New Deal si basa sulla giustizia sociale».
Da femminista di lungo corso, crede che dopo lo tsunami del #MeToo le cose siano effettivamente cambiate per le donne?
«Sì. Molte più donne, e non solo nell’industria cinematografica, ora pensano di poter uscire allo scoperto e denunciare perché sanno di essere credute. E questa è una cosa molto importante».
Nei Fire Drill Fridays le donne più anziane hanno un ruolo molto importante. È stata una scelta precisa?
«Le donne più anziane sono più coraggiose. In primo luogo, per una questione ormonale – più avanza l’età, più si abbassano gli estrogeni e si alza il testosterone. Così diventiamo più forti anche perché, diciamocelo, che cosa abbiamo da perdere? In secondo luogo, e guardando più a fondo, le donne sono meno vulnerabili degli uomini alla malattia dell’individualismo. Non so se sia lo stesso in Italia, ma negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito, l’individualismo è uno dei valori portanti della società. Ma come individui non abbiamo alcun potere, solo quando ci mettiamo insieme contiamo qualcosa. E questo le donne, per molteplici ragioni, riescono a capirlo fin dentro i loro corpi, così come capiscono la collettività e l’interdipendenza. A noi piace ritrovarci e fare le cose insieme, e dal momento che quella che viviamo è una crisi collettiva la soluzione non potrà che essere collettiva».
Negli anni Settanta lei ha sostenuto il movimento delle Black Panthers. Confrontandolo con Black Lives Matter, una volta ha detto che in BLM c’è un “sentimento di amore” che le pantere non avevano. In che senso?
«Le Black Panthers sono state un movimento molto ideologico che credeva nella rivoluzione armata. I leader erano tutti maschi e vestivano di nero, ricordo di averli aiutati a raccogliere fondi per far uscire alcuni attivisti di prigione. Riuscivo a capire le loro ragioni, ma mi facevano paura. Per quanto riguarda Black Lives Matter, invece, li ho conosciuti quattro o cinque anni fa, quando nella mia cassetta delle lettere ho trovato un loro volantino che spiegava “come un attivista deve prendersi cura di sé stesso”. Mai nella mia lunga vita avevo ricevuto un pamphlet di questo tipo da un’organizzazione politica. È allora che mi sono informata e ho scoperto che erano stati fondati da alcune donne, per di più artiste. Le vibrazioni che emanano sono molto diverse, e credo che sia proprio l’approccio delle fondatrici a far sì che anche molti bianchi li sostengano e scendano in strada con loro».
Lei ha parlato apertamente della bulimia di cui ha sofferto da giovane, che era legata a suo padre e quello che lei ha chiamato “sindrome del voler piacere”. Com’è riuscita a uscirne?
«È stata molto dura, anche perché non sono stata abbastanza intelligente da contattare un dottore o unirmi a un gruppo di sostegno. Però, arrivata alla soglia dei cinquanta, ho capito che non avrei più potuto continuare in quel modo, era una questione di vita o di morte. Così ho smesso. Ad aiutarmi è stato anche l’esercizio fisico, utilissimo per allontanare le ansie».
L’ultimo atto del documentario girato su di lei nel 2018 si chiama Jane. Le piace tutta la “sua” Jane?
«Sì, anche se ci sono ancora delle parti in ombra. Ho sempre desiderato essere qualcun’altra, ma se metto a confronto come stavo un tempo a come sto oggi devo ammettere di non essere mai stata più felice. Il mio corpo mi sta abbandonando, ma nonostante questo sono felice. E non è successo per caso, ci ho lavorato molto duramente. Sono molto orgogliosa di non aver mollato».
Lei ha detto: “Non importa chi vincerà a novembre, ma la disobbedienza civile deve diventare la nuova norma”.
«Se si guarda al passato, la disobbedienza civile è l’unica arma ad avere funzionato davvero per cambiare un sistema. Quello che cerco di fare con i Fire Drill Fridays è riuscire a coinvolgere persone che non hanno mai fatto niente del genere prima. E sa una cosa? È tutto molto interessante, perché c’è la polizia che ti arresta, ti mette le manette, ti chiude in galera e tu non hai più alcun controllo, eppure ti senti così potente, liberata, per il semplice fatto di essere riuscita ad allineare il tuo corpo con i tuoi valori. Un ragazzo una volta mi ha detto che, guardando i documentari su apartheid, diritti civili, voto alle donne, dove si vedevano persone arrestate e picchiate, si è sempre chiesto: “Io sarei stato così coraggioso?”. Ecco, anche questo è un periodo da documentari. Ma non dobbiamo più farci quella domanda: è il momento di agire».