Rose Bertin, la prima stilista della storia che vestiva Maria Antonietta

Heritage Images / Getty Images

di Aurora Mandelli (vanityfair.it, 30 marzo 2025)

Tre secoli prima che i designer diventassero vere e proprie celebrità alla direzione creativa delle big Maison, Rose Bertin (1747-1813) saliva alla direzione creativa di Versailles. Conosciuta per essere stata la “sarta di Maria Antonietta”, alias la regina più fashion victim della Storia, a ben vedere, costei era già uno step oltre la confezione degli abiti: guizzo creativo, estetica ben definita, stagionalità, proto-collezioni, una fama senza precedenti.

Ma come e perché questa marchande de modes è stata una stilista prima del tempo, pioniera dell’haute couture a suon di fiocchi e cotillons? Contro qualsiasi statistica sociale dell’Ancien Régime, la Bertin proviene da una famiglia molto modesta, originaria di Abbeville, nell’Alta Francia. Fa la sua gavetta in qualità di crestaia ad Amis, per poi spostarsi a Parigi dove lavora come modista nell’atelier più cool dell’epoca, Le Trait Galant di Mademoiselle Pagelle, dove bazzicano tutte le “It-aristocratiche”.

Nel 1770 apre Le Grand Mogol in Rue Saint-Honoré, strizzando l’occhio all’ossessione per l’esotismo che imperava a Corte. Il che funziona: in un paio d’anni, la sua boutique diventa il place to be delle nobildonne parigine. Tra le quali la duchessa di Chartres e la principessa di Lamballe, che ne fanno parola alla loro intima amica Maria Antonietta. Fin dal loro primo incontro (pare nell’estate del 1774), è un coup de foudre.

Annoiata e abbandonata a sé stessa, Maria Antonietta ha fatto dell’arte del vestire il suo hobby prediletto, ça va sans dire, acquistando trecento abiti l’anno senza indossare mai nulla due volte, si dice. Prende l’abitudine di ricevere Rose Bertin almeno due giorni la settimana, in barba alle udienze di routine e all’assenza del titolo nobiliare, dandole in mano tutto suo guardaroba. Per ogni stagione, all’incirca, vengono previsti dodici abiti di gala, dodici fantasia, dodici da cerimonia. Più sottovesti, scialli, fichus, calze, cuffie, cinture, guanti. Fino agli accappatoi da bagno!

Vien da chiedersi, per quale ragione lasciare completa carta bianca a Bertin? L’iper-customization, diremmo oggi, dei dettagli. Infatti, in un’epoca nella quale tutti gli abiti avevano la stessa struttura – gonna volumizzata dal panier e corsetto stretto in vita –, le sue creazioni assecondano le silhouette tradizionali, ma raccontano qualcosa di chi le indossa, un carattere, un’inclinazione, attraverso decorazioni, rifiniture, merletti, applicati au sentiment, seguendo l’estro del momento. Introduce l’uso smodato di ventagli e ombrellini, lancia la redingote per le donne ispirandosi alla moda inglese, fa della polonaise l’abito per le occasioni “casual” e inaugura il “color pulce”.

Ma soprattutto, nel 1782 circa, crea la chemise à la Reine: un abito destrutturato in mussola bianca, legato in vita con un semplice nastro e pensato per i giorni trascorsi al Petit Trianon, quando Maria Antonietta decide di darsi alla vita bucolica. Da un lato, questa apparentemente innocua robe en gaulle dilaga in tutto il Paese e oltre, accolta come una rivoluzione stilistica – nonostante sia giudicata indecente da alcuni, per la sua somiglianza alla biancheria intima del tempo – che precede i candidi abiti dell’epoca Regency. Dall’altro, scoppia il putiferio. Nel vedere la regina ritratta in queste vesti in un dipinto di Vigée Le Brun al Salon del 1783 (poi ritirato e sostituito), il pubblico si sente insultato. Sia per il tessuto importato, considerato antipatriottico; sia perché la regina si finge una popolana per gioco, mentre il popolo reale muore di fame.

Insomma, con Maria Antonietta la moda in Francia diventa una questione di Stato e Rose Bertin la sua potente “Ministra”, di nomina e di fatto. Certo, è Sua Maestà a dettare le tendenze tra le dame che cercano di emularla fino allo sfinimento, pronte a calche, corruzione, cifre astronomiche, pur di brillare sul commentatissimo “red carpet” della Reggia. Eppure, anche lo status e lo stipendio di Mademoiselle Bertin sono ben noti agli occhi del mondo, ricevendo omaggi e commissioni da ogni dove. Tanto che la romanziera tedesca Sophie von la Roche, nel suo Diario di viaggio attraverso la Francia (1785), la descrive come «la persona che imponeva a tutte le Corti europee ciò che doveva essere considerato bello e di buon gusto».

Sebbene il termine “stilista” nasca con Charles Frederick Worth nel bel mezzo del XIX secolo, è innegabile che Rose Bertin ne abbia in un certo senso anticipato i connotati. Come lui, non solo disegnava abiti, ma creava interi look narranti. Come lui, introduce collezioni stagionali e diventa una celebrità a pieno titolo. La differenza fondamentale possiamo ritracciarla nella firma che Worth apporrà sui propri abiti, tanto quanto nell’ingombrante potere di Sua Maestà, che Bertin servirà fino alla sua decapitazione. Ed è proprio qui, forse, la sua portata rivoluzionaria, ovvero l’essere riuscita a imporre la sua visione di moda all’interno di un regime assolutista, mettendo in scena la prima, leggendaria, folie à deux dell’haute couture.

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