di Paolo Mossetti (esquire.com, 11 marzo 2021)
Inizia con una maledizione sussurrata al padre morente l’autobiografia dell’ultimo Machiavelli italiano. Parole d’odio per sopprimere la rabbia e seppellirla col nemico di sempre. Rocco Casalino non perdona e non dimentica: in quel letto d’ospedale vede una giustizia che è arrivata, il conto di una violenza che il genitore aveva inflitto, per anni, ai figli e alla moglie. È a quest’ultima che l’ex responsabile della comunicazione di Giuseppe Conte dedica la citazione in apertura, tratta dalla poesia Supplica alla madre di Pier Paolo Pasolini. Ma quella rabbia non andrà mai via, e farà da propulsore a una delle carriere più fulminanti e originali nel nostro panorama politico.
Fin dai primi capitoli de Il portavoce, memoir che ha dovuto subire uno stop nella sua uscita causa crisi di governo, c’è il trionfo del privato, con cui le esigenze, le sofferenze e i valori dell’individuo Casalino sembrano prevalere sul Casalino politico, il giornalista ed ex star televisiva che ha fatto da consigliere al MoVimento 5 Stelle negli ultimi otto anni, quelli che hanno portato il grillismo dalla protesta di piazza al Recovery Fund. L’esposizione della sua verità interiore, scioccante sotto alcuni aspetti, orgogliosamente qualunquista sotto altri, è sbattuta subito davanti gli occhi dei lettori, che se ne sentono immediatamente investiti o almeno toccati.
Al centro di tutto ci sono dolore e inadeguatezza, che accompagnano Casalino fin dal concepimento, in una modestissima famiglia pugliese emigrata a Frankenthal, una cittadina tedesca di 40mila anime. La madre commessa, incinta della sorella maggiore già a sedici anni, il padre operaio che non la voleva, le botte e le torture per farla abortire, ma niente da fare, così i suoi genitori si sposano, per sempre infelici. Nel 1972 è il turno di Rocco: «Nasco non desiderato, non voluto, non cercato. Per caso, sbagliato», racconta colui che avrà alle sue dipendenze dozzine di giornalisti e, in mano, dossier dalla Libia e dall’Iraq. «Non è un bel modo di venire al mondo. Lontano dalla propria terra, da esule, da straniero». A scuola è vittima dei bulli in quanto «mangiaspaghetti», per di più effemminato. Quando torna nella sua terra d’origine, a Ceglie Messapica, provincia di Brindisi, si sente come un pesce fuor d’acqua, in quanto «crucco». Per fortuna Casalino ha una grande forza di volontà e una predisposizione per la matematica e i computer. Diventa un piccolo hacker. Si appassiona a Manzoni. È lì che impara i primi rudimenti del suo mestiere, la comunicazione: «Se vuoi combattere un’idea sbagliata ma che ha attecchito nel senso comune, non ottieni nulla attaccandola direttamente, riesci solo a cementare ancora di più le posizioni opposte e pregiudiziali. Se trovi invece un esempio lontano su cui tutti già concordano, il gioco è fatto». All’esame che più lo renderà orgoglioso – la maturità – prende 60 su 60. Come Conte e Di Maio, dice.
Un mio amico mi ha fatto notare che la vita di Casalino è una sorta di «plastico di Bruno Vespa», che mostra cos’è stato il «momento populista» in Italia, quali sono state le sue radici, quali i desideri ricercati e le speranze disattese che l’hanno alimentato, mentre crollavano i vecchi referenti politici. Difficile non essere d’accordo. Dopo aver fatto il fuorisede a Bologna, effimere esperienze di formazione all’estero, viaggi-esperienza negli Stati Uniti, Casalino finisce in un call center di una grande azienda. «Mi sentivo tradito dalla società. Dicevo: “Guarda questo Paese che ti dice studia, fai Ingegneria, fai soldi, diventi importante. Ho fatto tutto quello che mi avete detto, guarda che mi offrite voi, non mi offrite nulla di nulla”». Con la frustrazione aumenta l’arroganza. L’opportunità per la svolta arriva a 28 anni, con il colloquio per entrare a far parte della prima edizione del Grande fratello. Casalino vive ancora con la mamma, non ha un soldo, deve sbaragliare una concorrenza di decine di migliaia di persone affamate come se non più di lui, ma si sente aggressivo, supponente e con l’energia giusta. «Sono qui con la mia ragazza ma mi piacciono anche gli uomini. Sono un ingegnere elettronico, lavoro per una multinazionale americana e odiavo mio padre», è la frase con cui si presenta. I selezionatori si guardano come a dire: “L’abbiamo trovato”. In effetti, il futuro Machiavelli del primo governo anti-sistema dell’Unione Europea ha tutti gli ingredienti: «bisessualità o omosessualità repressa, rapporti familiari difficili… affascinato dalle cose strane». Dopo il terzo provino gli dicono che nel settembre del 2000 sarebbe entrato in questa famosa Casa.
Anche se è espresso con un linguaggio che ricorda quello del «confessionale» della celebre trasmissione tv, tra il flusso di coscienza e il rimasticamento di luoghi comuni per piacere a tutti, il trionfo del privato in Casalino non va considerato una manifestazione di irreversibile «reflusso», un pretestuoso e stucchevole recupero di motivi intimistici, ma piuttosto una tappa obbligata per fondare una diversa prospettiva collettiva, svincolata da astratte dottrine e velleità ideologiche. Gli eventi che lo radicalizzano sono gli stessi di milioni di suoi coetanei. L’esplosione di Tangentopoli, innanzitutto: «Era veramente una primavera quella che mi sembrava di vivere… ho creduto, ho sperato che l’Italia potesse cambiare. La mia convinzione politica ne usciva rafforzata». Non immaginava, Casalino, che pochi anni dopo si sarebbe ritrovato a una cena molto amichevole con la figlia di Craxi, Stefania, insieme al secondo marito Marco Bassetti, capo dell’Endemol e produttore del Grande fratello. Il secondo evento decisivo è l’assassinio del giudice Giovanni Falcone per mano della mafia: «un altro momento fondamentale per la mia vita, spinta ulteriore alla mia voglia di cambiare il Paese». Con la fine del Pci entra in Rifondazione, pur senza condividerne il dogmatismo parolaio: a lui piacciono i bei vestiti, le macchine. Il crollo del Muro non gli dispiace: «Ero comunista ed ero liberale». Il conflitto non si può nascondere e si traduce nel continuo disagio di non trovare un posto nel mondo. Neppure dopo i soldi improvvisi e la notorietà.
La partecipazione al primo reality show d’Italia trasforma Rocco Casalino in un fenomeno di costume, in un marchio, a Ceglie lo accolgono come local hero, nelle discoteche lo pagano cifre assurde per fargli fare un saluto al microfono. Per diversi anni si lascia andare in un vortice di effimero, di opportunisti e traffichini. La sua stella è in declino e si offre per televendite imbarazzanti, pubblicità a siti di scommesse, fino al praticantato come giornalista a Telenorba, grazie a Lamberto Sposini. Alla fine dei Duemila la sua principale passione è Cuba, dove si reca innumerevoli volte, alla ricerca di un compagno che gli dia pace («volevo trovare un fidanzato anche per non dover frequentare il mondo gay»). Ma l’illuminazione vera arriva il 25 aprile del 2008. In Italia è il giorno della Liberazione. Casalino partecipa da inviato al secondo V-Day indetto da Beppe Grillo, quello di Torino. Vede da vicino questo comico trascinatore di crociate del ceto medio trascurato, ne rimane entusiasta e impressionato: «sono arrivati quelli che cambieranno il Paese», capisce subito. Piano piano fa amicizia con Vito Crimi, con Manlio Di Stefano, con i futuri caporioni del partito («eravamo davvero ancora all’“uno vale uno”»). Si fa apprezzare per la sua energetica partecipazione, mentre molti aspiranti intellettuali guardano quella base di massa con sospetto e brividi di paura. Si propone come candidato al Consiglio regionale della Lombardia nel 2012, ma si sente stigmatizzato per il suo passato televisivo, e ci ripensa. Trova però consensi tra gli attivisti, e viene messo al fianco di Claudio Messora, allora addetto stampa e uomo di fiducia di Gianroberto Casaleggio.
È solo l’inizio: nel giro di tre anni Messora litiga coi capi e se ne va, Casaleggio muore, il partito decide di approfittare della crisi del renzismo, dell’Unione Europea e dei rifugiati, e diventa partito «pigliatutto». Casalino è il cervello che convince Grillo a mandare i suoi candidati in televisione, rompendo uno dei primi tabù fondativi del MoVimento. I pentastellati, che già avevano fatto il botto nel 2013, nel 2018 spaccano tutto: il 32 per cento dei consensi, primi in Italia, oltre il 50 per cento in alcune provincie di quel Sud stagnante in cui Casalino viveva come un «basilisco» di Lina Wertmüller. C’era però la Lega con cui fare i conti, a sua volta aspirante a un ruolo diverso, nazionale, generazionale, «neroverde». Per il ruolo di premier – bilancino tra i due partiti dell’alleanza – spunta il nome di uno sconosciuto avvocato di Volturara Appula. Casalino ne diventa lo spin doctor. Il resto è prevedibile: il premier Conte dipinto come un personaggio di Frank Capra, instancabile e candido, che gli ripete che non vuole uno yes man ma una persona «pulita e trasparente». Lui gli sta addosso: «sei sempre concentrato sul lavoro ma dobbiamo anche comunicare». Il pregiudizio nei suoi confronti della stampa e nei consessi internazionali non manca, superato grazie alla tenacia e al lavoro di squadra. Gli incontri con i leader mondiali trasformano la normalità in fiaba. Casalino pensa allora a chi lo ha bullizzato da ragazzo: «Ho cercato sui social ma non riesco a trovarli. Sogno di mandare loro la foto di una cena con la Merkel con scritto: “tu che mi hai insultato, picchiato, umiliato, tu che ti credevi chissà chi, tu dove sei adesso?”». Mentre i vecchi hater passano le loro giornate a litigare su Facebook, lui ce l’ha fatta: «Sogno che tornino a casa la sera dal lavoro, si siedano a tavola, accendano la televisione, mi vedano. E gli caschi la faccia nel piatto della zuppa».
È arrivato davvero Casalino dove voleva arrivare? Forse non lo sa ancora neppure lui. Gli innamoramenti e il sesso occupano un buon terzo del racconto, e in queste esperienze, raramente serene, quasi sempre deludenti, c’è la medesima doppia lotta del Casalino politico: contro la mascolinità del padre violento, muscoloso, ubriacone e stupratore, da un lato, e contro il terrore che si possa pensare a lui come un omosessuale, come uno di quegli uomini «eccessivamente colorati», eccessivamente diversi. «Se ci fosse una pillola per diventare etero, la prenderei». Pur con tutte le sue idiosincrasie Il portavoce avvia, sulla base della rivalsa del protagonista, un’analisi forse non molto approfondita ma sincera di questi nostri anni. Da essa si potrà dissentire per molteplici parti, ma rappresenterà comunque un preciso punto di riferimento nella discussione su cosa siamo stati. Su cosa abbia voluto dire la condanna a sentirci unici, per non riuscire a essere come tutti.