di Simonetta Sciandivasci (linkiesta.it, 29 ottobre 2019)
Umbria, che fatica. Quest’Umbria Ohio per un mese, prova del nove del corso prematrimoniale che finora è stato il Conte bis, ce la saremmo potuta risparmiare. Niente Salvini che abbraccia ulivi, niente Morra che fa lo schifiltoso, niente foto di Narni – commentando la quale, Roberta Lombardi ha detto a la Repubblica: «Ora che l’hanno fatta, tutti a dire quello guardava a destra, quello a sinistra, l’altro di traverso. Sembra Verdone: Alza le gambe, abbassa le gambe, io gliele tajerebbe ’ste gambe!».
Ce la saremmo risparmiata se soltanto Silvio Berlusconi non avesse epurato il senatore Antonio Razzi, permettendogli così di realizzare il suo grande progetto politico per il Paese. Questo: «Siccome l’Italia è divisa tra Nord, Centro e Sud, ci vorrebbe un Berlusconi al Nord, uno al Centro e uno al Sud. Così diventeremmo la prima nazione al mondo, il giardino del mondo». Così disse Razzi una volta a Un giorno da pecora, era ancora senatore, e lo ha raccontato, per noi che lo avevamo dimenticato, nel capitolo “Silvio mi manchi”, del suo ultimo libro Te lo dico da Nobel, edito da Graus Edizioni. Pensate che meraviglia: il Paese diviso in tre grandi governatorati guidati ciascuno da un Silvione, o tutti dallo stesso Silvione, l’originale, per l’occasione tripartito, o se volete trinitario. Che sollievo sarebbe, e che sogno, per non parlare del risparmio, del micidiale ma finalmente efficace taglio ai costi della politica e dell’amministrazione pubblica locale che ne deriverebbe.
Di disegni di indiscussa Realpolitik come questo, il libro di Razzi è pieno e non si capisce cosa aspettiamo ancora per andare a riprendercelo, il senatore dell’Abruzzo, questo fiero Centritalia dell’entroterra in purezza, di corsa, stanotte, adesso, riparando così all’errore di averlo sovrapposto all’imitazione che ne faceva Crozza, di esserci fatti bastare i suoi modi bucolici e le sue dichiarazioni eccentriche e decentrate per dargli dello Chance Giardiniere, prenderlo per un grottesco incidente o paradosso della democrazia, senza mai soffermarci a valutarne le capacità diplomatiche, umane, relazionali, divinatorie; la lealtà; la bontà; il peso specifico istituzionale. Che fessi che siamo stati. Noi e soltanto noi, però, perché altrove il talento di Razzi, e tutta la sua persona, sono assai apprezzati.
Nemo propheta in patria, come al solito. «Cari lettori italiani, questo libro è la storia di un’amicizia, quella che lega il mio Paese a un uomo della vostra nazione, il senatore Antonio Razzi», scrive nell’Introduzione Kim Chon, capo della delegazione diplomatica a Roma della Repubblica Democratica di Corea. Un Paese bellissimo, in fiore, nient’affatto bellicoso («Sono spariti i razzi, a parte me»), guidato da Kim Jong-un («un mio buon amico, capo di tutto, un giovane che piace ai giovani, un pacioccone»), con cui l’Italia, se Razzi fosse al governo, avrebbe di certo rapporti privilegiati, perché lo conosce molto bene, sa come far ridere chi ci vive («Signora bella, devo allontanarmi, ho un motivo un po’ intimo, necessità che non posso descrivere a una signora… devo andare al bagno!», ha detto una delle prime volte che c’è stato – era il 2007 – alla responsabile della delegazione italiana, facendola sbellicare) e sa quali sono i suoi tesori nascosti («Le vigilesse, oltre che eroiche, sono bellissime, stupende, madonna, e chi se lo aspettava? E così, da buon italiano, mi misi in testa di fare una fotografia con una di quelle divinità in divisa»).
Tanto l’hanno amato e lo amano, laggiù, che una volta, nel 2015, su 150 delegazioni che arrivarono in Corea del Nord, Kim Yong-nam, figlio di Kim Jong-il, il fu dittatore, volle vedere soltanto lui (nella visita precedente lo aveva così conquistato: quello gli aveva chiesto come andassero le cose in Italia e lui gli aveva risposto che tutto era a posto, perché gli italiani sono un popolo che risolve sempre tutto, è sufficiente sedersi a tavola e mangiare un piatto di spaghetti). Matteo Salvini sapeva di questo legame particolare e Razzi racconta che una volta, quando si trovarono insieme a Pyongyang e finirono sul 38esimo parallelo (confine tra Sud e Nord Corea), i militari fecero sequestrare tutte le telecamere che quelli al loro seguito avevano, finché lui, assai stranito, non disse ehi, ma io sono Antonio Razzi, e un colonnello si scusò e gli armamentari furono restituiti e il via libera accordato. «Antonio, se scoppia una guerra qua ci vuoi tu», gli disse Salvini.
Un’altra volta ha mediato per il Giappone. «Deve perdonarmi se entro negli affari vostri – disse a Kim Yong-nam – e si ricordi che ambasciator non porta pena e senta una cosa: i parlamentari giapponesi vorrebbero sapere cosa è successo ai loro soldati che sono stati imprigionati nelle vostre carceri durante la guerra». Risposta: «Quelle persone sono tutte morte. Vede, sono passati oltre sessant’anni». Oh, ma è logico! E adesso cosa dico ai giapponesi, ci resteranno male, poverini, pensò Razzi, fino al colpo di genio: «Un mio consiglio, anche per alleggerire i rapporti: potreste mandare i resti di quei poveri militari in patria». Risposta: «Lei è sorprendente, senatore! Un finissimo diplomatico. Mi ci impegnerò, anche se non so se sarà possibile». Cose che neanche su Netflix, signori.
Gentile Di Maio, per piacere, dia a quest’uomo la Farnesina. Se dovesse andar male, potrà lasciarlo a casa dall’oggi al domani, come ha fatto, imperdonabilmente, incomprensibilmente, Silvio Berlusconi, e non ci saranno ripercussioni. Silvio, infatti, è stato perdonato: dopo molti mesi di ostracismo, e incarichi non confermati, e telefonate e lettere e appelli senza risposta, Berlusconi chiama Razzi per fargli gli auguri di Capodanno (è il 31 dicembre del 2018), si scusa per la latitanza e non riceve nient’altro che un: «Per me lei è sempre il mio presidente». Naturalmente, l’amaro in bocca rimane: «Avrei potuto essere l’orgoglio di Forza Italia, potevano dire che nel partito c’è un amico di Kim che in qualsiasi momento può riportare la pace nel mondo». E invece niente. E adesso guardatelo, Silvio Berlusconi: sale sui palchi salviniani e si fa fregare il microfono da Giorgia Meloni, ridotto alla subalternità dal nuovo che avanza per spazzarlo via.
Razzi, intanto, sogna. E presto sarà amico di Putin: ha la sensazione che succederà, perché lui non si vergogna di parlare con nessuno. «Nella vita, se ti vergogni, non ottieni nulla».
P.S.
Ce n’è anche per gli indignati professionisti che davanti al selfie di Razzi e Bashar al-Assad urlarono come se avessero assistito alla ratifica di un genocidio di Stato. La verità è che fu Assad a chiedergli di posare con lui, e fu irremovibile («Io tentai di defilarmi dicendo all’interprete che ero troppo anziano per certe cose, ma non ci fu verso»). Voialtri cosa avreste fatto? Voialtri cosa avreste fatto, suvvia.