di Micol Sarfatti («Sette», suppl. al «Corriere della Sera», 22 marzo 2018)
La moda è femminista o il femminismo è diventato di moda? Si può protestare vestiti Dior? O Prada, Armani, Gucci… Si può scendere in piazza a combattere per diritti e uguaglianza indossando capi costosi di marchi che sono, per loro natura, elitari? Ci si può ribellare al capitalismo e alle sue espressioni sfoggiandone l’essenza?
L’ultima a chiederselo, in ordine di tempo, è stata Vanessa Friedman sul New York Times. Ma la domanda rimbalza da tempo. Ribellione e lusso sono compatibili? Anticipiamo una risposta: forse si può. Perché la moda è spirito dei tempi, anche quando sono agitati e contraddittori come quelli in cui viviamo. E, da imposizione, la moda è diventata espressione. L’impegno civile non ha più bisogno di prendere le distanze dalla vanità. I contenuti possono andare a braccetto con l’apparenza, l’intelligenza accoppiarsi con l’eleganza. Entro certi limiti, che vedremo.
Nel 2015, in occasione della presentazione della collezione Primavera-Estate di Chanel, Karl Lagerfeld ha messo in scena una vera e propria manifestazione con tanto di megafoni e cartelli. Alla recente fashion-week parigina Maria Grazia Chiuri, direttore artistico di Christian Dior, che negli ultimi anni ha dato al marchio francese una forte impronta sociale, ha portato in passerella un omaggio alla contestazione del 1968. L’ispirazione – pare – è arrivata da una foto di archivio in cui è immortalato un gruppo di ragazze che, proprio cinquant’anni fa, protestava davanti alla boutique del marchio Dior. Così al Musée Rodin di Parigi, ricoperto per l’occasione da poster e manifesti d’epoca, hanno sfilato giacche oversize, abiti ampi e gonne fiorate. Pullover-passamontagna con il simbolo della pace o con la scritta «C’est non, non, non et non», «Quando è no, è no». Femminilità, autodeterminazione, rifiuto di ogni molestia. La moda subisce il fascino di #metoo? «Il patriarcato ha influenzato il modo in cui le donne approcciano la moda», spiega Maria Grazia Chiuri. «Prendere coscienza significa conquistare le redini della propria identità, la moda ha un ruolo essenziale in questo percorso. La moda è un mezzo da usare per vedersi con i propri occhi», scrive a «Sette». Prima ci sono state le collezioni di Vivienne Westwood, gli abiti e gli accessori con la stampa «Thanks girls» di Stella McCartney. E le magliette. Nella collezione Primavera-Estate 2017 lo stesso Dior ha presentato una t-shirt con la scritta «We should all be feminists»: dovremmo essere tutti femministi, titolo di un discorso, poi diventato saggio, della scrittrice e attivista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. Le magliette, cotone e lino bianco, scritta nera, in vendita a 550 euro, sono state fotografate e postate dalle star di tutto il mondo. Dalla cantante Rihanna, alla über influencer Chiara Ferragni. Poi è stata la volta di Prabal Gurung, che ha portato sulle passerelle newyorkesi il motto femminista anni Settanta «Future is female». Anche questo stampato su una maglietta, indossata dalla modella Bella Hadid. Nella stessa collezione, lo stilista di origini asiatiche ha decorato abiti e camicie con citazioni di Emily Dickinson e Gloria Steinem. E il cinema? Agli ultimi Golden Globe l’attrice americana Connie Britton ha sfoggiato una felpa, firmata dal brand Lingua Franca, con la scritta «Poverty is sexist»: «La povertà è sessista», slogan della campagna One contro le disparità di genere. Va detto che il prezzo del capo, intorno ai 400 dollari, non è proprio popolare.
Il nuovo femminismo pop divertente e alla moda, impegnativo ma non troppo, ha sempre più successo. Viene chiamato anche femvertising, unione tra feminism e advertising, un neologismo coniato dal settimanale inglese The Guardian nel 2015 per indicare un tipo di pubblicità, e più in generale di comunicazione, femminista e senza stereotipi. Ma questa onda fucsia, colore moderno del nuovo girl power, sicuramente più cool del vecchio e lezioso rosa, è davvero utile alla causa delle donne? Sì, secondo Daria Bernardoni, direttore di Freeda, luogo digitale dedicato alle lettrici dai 18 ai 34 anni (che in poco più di un anno ha raggiunto 1,2 milioni di like su Facebook, con 20 milioni di interazioni, e 500mila follower su Instagram). «Questa generazione ha diritti inediti rispetto alle precedenti. Ha scardinato lo stereotipo della moda come frivolezza. La considera uno strumento di espressione personale», dice Bernardoni. «Ben vengano le proposte di alta moda che contribuiscono a divulgare valori importanti e a renderli popolari a tutti. Per cambiare le cose bisogna arrivare alle masse. Altrimenti si resta a un livello accademico. Il nuovo femminismo è un movimento trasversale e inclusivo, che coinvolge anche gli uomini. Non c’è più la guerra dei sessi». Non la pensa così Jessa Crispin, scrittrice e autrice del saggio Perché non sono femminista (Sur). «A un certo punto del percorso verso la liberazione femminile si è deciso che il metodo più efficace fosse rendere universale il femminismo», argomenta. «Ma anziché creare un mondo e una filosofia capaci di attirare le masse, un mondo basato sull’equità, la comunità e lo scambio di idee, era il femminismo stesso a dover essere sottoposto a un restyling per risultare più appetibile al pubblico contemporaneo, sia maschile che femminile». (…) «La gente non ama i cambiamenti, per cui il femminismo non deve modificare lo status quo – se non in misure minime – per reclutare grandi numeri di adepte. In altre parole, deve diventare totalmente inutile». «Se il femminismo è universale, se è un carro su cui tutte le donne, e gli uomini, possono saltare, non fa per me», conclude Jessa Crispin.
Intanto chi vuole gridare al mondo «Potere alle donne!», per fede o per moda, ma ha un budget limitato, non disperi. Le t-shirt con slogan femministi sono arrivate nelle grandi catene low cost. Il colosso svedese H&M ha prodotto la sua versione di «Future is female», Topshop propone «The females of the futures», Primark punta sul «Women Power». Su Amazon, poi, se ne trovano a centinaia. Tutte a un prezzo compreso tra gli 8 e i 12 euro. Vestirsi per la rivoluzione femminista, in fondo, non è mai stato così facile. Farla, è un po’ più difficile.