di Alessandro Calvi (huffingtonpost.it, 3 maggio 2023)
Il moralismo rovesciato da sinistra sull’intervista di Elly Schlein al mensile Vogue, corredata da foto patinate e descrizione delle abitudini modaiole della segretaria del Pd, è decisamente stucchevole. Altrettanto stucchevole è il realismo politico esibito da chi, dal fronte liberale e più in generale da destra, ha liquidato quelle critiche a volte con toni spicci, a volte esercitandosi in un épater le bourgeois davvero un po’ appassito.
E pensare che, in quella intervista, di cose interessanti da osservare ce ne sarebbero state molte, magari piccole e laterali, eppure importanti, o quanto meno rivelatrici dello stato del rapporto che l’informazione ha stabilito col potere, già da molto tempo. Tra queste cose apparentemente minori c’è il “tu” che viene utilizzato nel corso dell’intervista per rivolgersi a Elly Schlein, e che lei ha accettato (per esempio: “Il tuo approccio alla politica”, o: “Nella tua vita ci sono molte vittorie”, o ancora: “Tu credi nel cosiddetto “power dressing?”). E il fatto che la segretaria del Pd venga più volte confidenzialmente chiamata per nome (per esempio: “Elly, come si vince una discussione?”, o: “Da quel momento, in un continuo rollercoaster di eventi politici e no, Elly è volata a Bruxelles”).
In televisione il “tu” tra politici e giornalisti ancora si evita come la peste, nelle interviste pubblicate dai giornali invece capita spesso che all’intervistato venga dato del “tu”, tanto che ormai quasi non ci si fa più caso. Forse si ritiene che in questo modo il racconto sia più attrattivo. Tuttavia l’utilizzo del “tu” finisce inevitabilmente per dare la sensazione ai lettori della mancanza di ogni distanza tra intervistatore e intervistato, se non addirittura di una certa familiarità. E questo può rappresentare un problema, soprattutto quando il “tu” viene utilizzato nel rivolgersi a chi rappresenta il potere. Il fatto che non si avverta questo come un potenziale problema, va considerato un segnale di allarme.
Per antica e consolidata regola, infatti, chi scrive – salvo alcuni casi particolari in cui il resoconto giornalistico lo richieda – dovrebbe raccontare le notizie collocandosi fuori dal testo, se non altro per evitare di influenzare surrettiziamente le impressioni dei lettori. E così è stato a lungo. Poi, con i primi anni Novanta del Novecento, il resoconto di cronaca ha iniziato progressivamente a essere soppiantato da altri generi giornalistici, il retroscena su tutti. Si sono iniziati ad affermare l’uso del “tu” nelle interviste, l’uso dei nomi propri dei politici nella titolazione e il racconto in prima persona anche quando non necessario ai fini del racconto stesso.
Il linguaggio giornalistico insomma ha iniziato a rappresentare direttamente il nuovo rapporto che si andava costruendo tra informazione e potere in quegli stessi anni, un rapporto sempre più stretto e spogliato dalle cautele con cui fino ad allora la stampa generalista aveva mascherato una eventuale rappresentanza di interessi. In un sistema di questo genere, in cui può essere difficile distinguere tra informazione e interesse politico, il linguaggio è fondamentale poiché, anche nei casi in cui le due cose non si sovrappongano, l’uso del “tu” o comunque il mostrare familiarità col potere apre la strada al rischio che il racconto giornalistico si allontani sempre più dalle urgenze dell’informazione per avvicinarsi a quelle della comunicazione.
Il problema diventa poi particolarmente rilevante di fronte a interviste che sono il frutto di una precisa scelta di comunicazione da parte dei politici. Per questo appare ancor più incredibile che tutti o quasi si siano concentrati sulla nuova immagine un po’ patinata che la segretaria del Pd ha inteso dare di sé, invece che sul senso politico di questa scelta comunicativa e sulla sua – per così dire – matrice culturale. Che, guarda caso, ha anch’essa la propria radice negli anni Novanta del Novecento, quando i partiti popolari furono sostituiti da organizzazioni molto più leggere, nate per strutturare il consenso personale del proprio capo e non più per affermare delle idee. Ma, se la politica si riduce a una forma di marketing che vende agli elettori un leader, e lo fa sollecitando il tifo e senza più un orizzonte ideale, ecco che allora, mancando il contenuto, la forma e la comunicazione della forma diventano determinanti. E lo diventano molto più di quanto non accadesse nella prima repubblica.
A dare avvio a questo processo, a inventare insomma la seconda repubblica, è stato Silvio Berlusconi con il famoso discorso della discesa in campo. “L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti”, disse nel video trasmesso da tutti i telegiornali il 26 gennaio 1994. Ogni cosa attorno a lui era studiata. Il suo corpo, il trucco, ogni suo movimento e ogni oggetto collocato nella scenografia affermavano ciò che anche le parole stavano affermando. E con la stessa forza di persuasione. Nella comunicazione politica nulla dopo di allora sarà più come prima. “Doppiopetto, tuta in cachemire, bandana, bretelle, giubbotto di Putin, casco da Mazinga durante il terremoto, mise alla Tony Soprano o alla Tony Manero con pendaglio al collo e cordino di caucciù, panama da 3.500 euro, pelliccione da eschimese, fazzoletto da partigiano: nessuno più del Cavaliere ha coltivato la risorsa del cambio dell’abito come messaggio di relativismo, se non di nichilismo”, ha scritto su la Repubblica Filippo Ceccarelli. Nessuno come lui, certo, eppure da quel giorno del 1994 tutti provano a fare come lui, evidentemente convinti che sia l’unica strada possibile. O che, per citare Margaret Thatcher, “there is no alternative”, non ci sia alternativa.
Se tutto questo è vero, ciò significa che una parte importante del messaggio che arriva ai lettori di quella intervista di Schlein è che anche la nuova segretaria del Pd, come del resto tutti i segretari che l’hanno preceduta, abbia deciso di collocarsi all’interno dell’orizzonte culturale aperto trent’anni fa da Berlusconi, condividendo il paradigma berlusconiano della comunicazione politica, o comunque adeguandosi ad esso. Non è questo, però, l’unico modello di comunicazione politica. Ci sono alternative. Non rendersene conto o, peggio, dire che oggi la politica è soltanto questo, ridurla a marketing e considerare illusi tutti coloro che a questo non si rassegnano, significa per l’appunto accomodarsi nel presente rinunciando all’idea di cambiare davvero le cose, e quindi rinunciando all’idea di un futuro diverso. In ultima analisi significa, appunto, accettare come matrice il canone culturale imposto in Italia da Berlusconi trent’anni fa. Se è così, l’esistenza di un’esperta di armocromia che assiste Elly Schlein nella scelta dei vestiti da indossare è davvero l’ultimo dei problemi per il centrosinistra.