di Alain Mabanckou (Libération / internazionale.it, 2 luglio 2021)
Negli anni Sessanta, quando molti Paesi dell’Africa francofona stavano entrando uno dopo l’altro nell’era dei “soli delle indipendenze”, sentivamo in continuazione Joseph Kabasele, alias Grand Kalle, intonare le parole di Indépendance cha cha. Che senso ha una rivoluzione se non la si fa cantando? Scritta da Grand Kalle e cantata da Vicky Longomba, con il prodigioso Nico Kasanda, alias Docteur Nico, alla chitarra, questa canzone è diventata l’inno di emancipazione del continente nero. Alcuni dei padri fondatori della rumba congolese erano lì, pronti a immortalare quel momento storico. Un appuntamento da non perdere per nulla al mondo.
Nel 1960 Grand Kalle e il suo gruppo, l’African Jazz, erano a Bruxelles, dove doveva svolgersi la famosa Tavola Rotonda sull’indipendenza del Congo belga. Il brano nacque da un’improvvisazione, dettata dall’entusiasmo per quella liberazione tanto attesa dai popoli africani. Indépendance cha cha racconta questo evento storico. Cantata in Lingala, lingua parlata sia nell’ex Congo belga, oggi Repubblica Democratica del Congo, sia in Congo-Brazzaville, il brano celebra la vittoria dell’indipendenza e il successo della Tavola Rotonda, alla quale avevano partecipato molti partiti politici congolesi dell’epoca insieme a leader carismatici come Patrice Lumumba, Moïse Tshombe e Joseph Kasa-Vubu. Tutti questi partiti e questi politici di primo piano si erano uniti in un “fronte comune” per ottenere la liberazione della nazione congolese. Le prime parole esaltano quel momento storico: «Abbiamo ottenuto l’indipendenza / Siamo finalmente liberi / Alla Tavola Rotonda abbiamo vinto / Viva l’indipendenza che abbiamo vinto». Io sono nato sei anni dopo e ho sempre sentito Indépendance cha cha nella maggior parte dei bar congolesi di Trois-Cents, il nostro quartiere a Pointe-Noire. A noi sembrava solo una canzone “vecchia” per amanti della rumba, niente di più. La verità è che, come tanti giovani della mia età, all’epoca non capivo il senso di quelle parole, anche se mi capitava di accennare qualche passo di danza sentendo la magica chitarra di Docteur Nico. Vedevo gli adulti tutti in ghingheri, gli uomini con i pantaloni a zampa d’elefante, le donne con i pagne colorati. Era ancora l’epoca del giradischi, del vinile, dei 78 giri, poi dei 45 giri, con due facciate, il “lato A” e il “lato B”. Alla fine del lato A bisognava girare il disco per ascoltare l’altro lato. E quando la canzone finiva, la folla nel bar urlava in coro: “Bis! Bis! Bis!”.
Mio padre aveva conservato dei ricordi di quei tempi felici. Anche lui aveva ballato la rumba al ritmo di Indépendance cha cha e venerava Grand Kalle. In sala da pranzo avevamo un suo poster. Quando mi fermavo davanti a quell’immagine, mi avvicinavo sempre per guardarla meglio. Grand Kalle posa di profilo, con il mento appoggiato alla mano sinistra. Guarda davanti a sé, in lontananza, con il sorriso di chi è soddisfatto per la direzione che ha preso la Storia. Molto tempo dopo mi sono chiesto se la spensieratezza di quel ritratto non riflettesse l’atteggiamento degli africani dell’epoca. Sapevano che l’indipendenza implica anche il confronto tra mondo tradizionale e mondo moderno? Si rendevano conto che quella liberazione segnava l’inizio di un’“avventura ambigua” e che, in un certo senso, non eravamo più così lontani dall’universo descritto da Ahmadou Kourouma ne I soli delle indipendenze? In questo capolavoro della letteratura africana, Fama, un principe malinké che rimpiange la grandezza della sua stirpe, deve fare i conti con uno stile di vita nuovo e, soprattutto, con l’avvento del partito unico, di una visione autoritaria della politica incarnata da un’unica persona che ha concentrato tutti i poteri tra le sue mani. La confusione che prova Fama in questo mondo nuovo e caotico rispecchia la condizione in cui furono catapultati gli ex colonizzati. Gli africani che ballavano al ritmo di Indépendance cha cha sapevano che, mentre sulla carta i nostri Paesi erano stati decolonizzati, la “colonizzazione della coscienza” logorava più che mai ogni individuo? Che i nostri dirigenti non avrebbero centrato la loro politica sulla coscienza del colonizzato, ma avrebbero copiato il modello di governo occidentale? E che alcuni capi di Stato, contagiati dal culto della personalità, ci avrebbero regalato i personaggi più ridicoli, ma anche più tragici, della nostra Storia, come Idi Amin Dada, Jean Bédel Bokassa, Mobutu Sese Seko? Coglievano i primi segni dell’esplosione di conflitti etnici, di omicidi politici, di “colpi di Stato permanenti” che sarebbero diventati i tratti distintivi dell’Africa? Tutte queste domande me le sarei fatte solo da grande, quando ormai era troppo tardi.
Tornando alla mia infanzia, quando entravo nella sala da pranzo, quindi, mi fermavo davanti al poster di Grand Kalle e cercavo di interpretare la sua posa, di capire il significato della sua aria rilassata. Studiavo i suoi vestiti, e il grande colletto della sua camicia a righe inamidata mi dava un’idea dell’eleganza di allora. Non mi stupiva che anche mio padre portasse camicie simili, odiate da mia madre perché erano difficili da stirare senza sformare il collo. Una cosa è certa: all’epoca le persone si vestivano come principi e principesse. Cravatta obbligatoria, completo, capelli con la riga in mezzo (per gli uomini) o intrecciati (per le donne). Secondo alcuni dirigenti africani, però, questo tipo di abbigliamento perpetuava la colonizzazione proprio quando bisognava rompere con “l’alienazione culturale”. In Zaire, l’ex Congo belga, Mobutu Sese Seko avrebbe affrontato il problema lanciando una politica di cosiddetta “autenticità” nota come zaïrianisation: ufficialmente vietata la cravatta e obbligatorio l’abacost, una giacca diversa da quelle occidentali. Ho anche visto, in uno degli album di mio padre, degli scatti in bianco e nero che conservava con molta cura, come temendo che la loro scomparsa potesse spezzare il sogno della liberazione. Ero intimorito da quelle fotografie: mi lavavo le mani, poi aprivo gli album con cautela. Sapevo già che stavo entrando in una sorta di pantheon e che i pezzi che osservavo erano le tracce della nostra Storia, quella che l’Occidente non racconterà mai e che noi figli avremmo dovuto custodire per assicurare la sopravvivenza del nostro continente. Su quelle immagini vedevo Patrice Lumumba all’aeroporto di Kinshasa, di ritorno da Bruxelles, mentre scendeva dall’aereo accolto da una folla esaltata. Era alto, sorridente, e aveva appena discusso con i belgi che avevano perso la loro colonia visitata anche da Tintin: il Congo belga.
Mio padre mi spiegò che Lumumba aveva pronunciato un discorso in un’assemblea davanti agli ex colonizzatori, che lo ascoltavano quasi digrignando i denti. In realtà quel giorno non avrebbe dovuto parlare, ma aveva preso la parola in modo intempestivo. Lumumba era uno degli uomini politici congolesi più “turbolenti” e i belgi non riuscivano a “gestirlo”. Incarnava il destino del nuovo Congo, che stava crescendo nei sogni di uno degli spazi più vasti del continente africano. Quel destino non si poteva fermare, il cammino della Storia era tracciato e si stava snodando sotto gli occhi dell’assemblea di Bruxelles. Lumumba aveva scritto il suo discorso in fretta e furia, mentre gli altri partecipanti della Tavola Rotonda si lanciavano in una battaglia di eloquenza che sembrava annoiarlo. Lumuba era fuori di sé, perché quel 30 giugno 1960 re Baldovino aveva tenuto un discorso che in sostanza valorizzava la colonizzazione. I belgi, a sentir lui, avevano civilizzato i congolesi. Era naturale, quindi, che il loro re ne fosse soddisfatto. Tutto lasciava intendere che erano gli ex colonizzatori ad aver voluto quell’indipendenza, convinti che la loro missione fosse giunta al termine. I congolesi, però, non la vedevano così. E Lumumba meno di tutti, lui che fremeva d’impazienza mentre il re parlava con voce autoritaria e al tempo stesso venata di nostalgia per le terre che avrebbe perso. Lumumba buttava giù appunti su appunti freneticamente. Ogni tanto si raddrizzava i grossi occhiali da vista e lanciava uno sguardo alla tribuna, dove si susseguivano gli oratori. Sapeva che le parole che stava per pronunciare sarebbero state come benzina sul fuoco. Alla fine si alzò, si sistemò la giacca e sorprese i responsabili del protocollo precipitandosi dritto verso la tribuna. Salì e attaccò: «Conosciamo l’ironia, gli insulti, i colpi che abbiamo subìto mattina, pomeriggio e sera, perché eravamo dei negri. Chi può dimenticare le fucilazioni in cui morirono tanti nostri fratelli o le celle dove furono brutalmente buttati quelli che non volevano sottomettersi a un regime d’ingiustizia, di oppressione e di sfruttamento?».
Indépendance cha cha di Grand Kalle celebrava soprattutto la partenza dei bianchi, il diritto degli africani di gestire da soli il loro continente. I balli e la gioia non ci hanno fatto pensare che la disillusione sarebbe arrivata rapidamente, in meno di cinque anni. Con il tempo, questo brano è diventato il simbolo della nostra ingenuità. Le luci ingannatrici delle “indipendenze sulla carta” ci hanno spinto a credere che bastasse la partenza dei bianchi a rimettere il continente nero sulla sua vera strada. Alcuni Paesi africani ormai sono in mano a monarchi saliti al potere con la forza e capaci di “colonizzare meglio” dei bianchi, perché sanno come far votare le “bestie selvagge”. E quando alcuni di questi monarchi muoiono, i figli proseguono il lavoro dittatoriale del genitore. Per grande sfortuna delle popolazioni africane.