di Simona Siri (vanityfair.it, 6 ottobre 2018)
Nessuno è più socialmente impegnato delle star di Hollywood. Che si tratti di diritti degli animali, difesa dei nativi americani, aborto, controllo delle armi, ambiente, insomma uno qualsiasi dei temi sui quali la società americana è divisa politicamente – oggi più che mai –, gli attori e le attrici non si tirano indietro, ci mettono la faccia, marciano, protestano.
E si fanno arrestare. Per alcuni, le foto di questi ricchi in manette che in fondo non rischiano nulla (di solito sono rilasciati su cauzione dopo poche ore) non fanno che aumentare il fastidio conservatore che vede relegata alle élite hollywoodiana la difesa di temi tanto cari alla sinistra. Per altri, è l’esempio di come si possa essere privilegiati e allo stesso tempo impegnati in un modo che non sia solo staccare un assegno ogni tanto.
Di recente è toccato a Amy Schumer e Emily Ratajkowski finire in manette. Le due erano, insieme a un nutrito gruppo di attiviste, davanti al Senato di Washington, a protestare contro la nomina del giudice Brett Kavanaugh – accusato da più donne di abusi sessuali – alla Corte Suprema. Non saranno le ultime, non sono le prime. Jane Fonda ci ha costruito la fama e prima di diventare l’adorabile signora che è oggi era conosciuta al grande pubblico per il suo fervore comunista tanto quanto per i suoi film. Grande oppositrice alla guerra in Vietnam, Fonda è stata arrestata due volte. La prima nel 1970 all’aeroporto di Cleveland. Di ritorno da una protesta in Canada fu fermata dalla polizia, che la sorprese con una borsa con delle pillole dentro. Erano vitamine, Fonda venne rilasciata quasi subito, ma abbastanza in tempo per regalare alla storia la mug shot, ovvero la foto segnaletica tra le più famose di tutti i tempi, quella di lei con il pugno alzato. A Susan Sarandon è successo più volte, l’ultima lo scorso giugno, quando a Washington protestava contro le politiche di Trump in tema di immigrazione. La prima volta nel 1999, quando, insieme a 200 persone, protestava di fronte al quartier generale della polizia di New York per l’uccisione dell’immigrato africano Amadou Diallo. Anche Daryl Hannah è stata arrestata più volte. Nel 2012, in Texas, perché protestava contro la costruzione del gasdotto Keystone XL. Nel 2013 perché, per lo stesso motivo, protestava di fronte alla Casa Bianca. Per un motivo simile – proteste contro la costruzione di un gasdotto che sarebbe passato sulle terre dei nativi americani – è stata arrestata Shailene Woodley nel 2012, il tutto in diretta live su Facebook. Nel 2002 Cynthia Nixon fu arrestata a New York mentre protestava contro le politiche scolastiche dell’allora sindaco Michael Bloomberg. Il suo attivismo non è sporadico: Nixon è stata appena candidata a Governatore dello stato di New York, sconfitta alle primarie da Andrew Cuomo. Tra gli uomini l’arresto più clamoroso è sicuramente quello di George Clooney. Finì in manette nel marzo del 2012, mentre protestava davanti all’ambasciata sudanese di Washington insieme al padre, il giornalista televisivo Nick Clooney. Woody Harrelson fu arrestato nel 1996 per aver scalato il Golden Bridge di San Francisco insieme a un gruppo di ambientalisti. A Martin Sheen è toccato nel 1986: stava protestando contro i test nucleari nel deserto del Nevada. «Amo abbastanza il mio Paese da correre il rischio di dire la verità», dichiarò all’epoca.
Se le proteste dei divi servono davvero alla causa è un altro discorso. In alcuni casi non c’è dubbio che l’interesse di una celebrity su un tema poco conosciuto e poco presente sui giornali può fare molta differenza. Qualcuno era a conoscenza dei problemi del Darfur prima che se ne occupasse Clooney? No, appunto. Per i conservatori che detestano il mondo dorato e troppo liberale di Hollywood non è che la conferma di quello che pensavano già. Nel dubbio, il recente caso di Colin Kaepernick forse qualcosa dice: ingaggiato dalla Nike come volto del trentesimo anniversario della campagna Just Do It l’uomo simbolo della protesta afroamericana ha suscitato reazioni indignate da parte dei conservatori, che sono arrivati a bruciare i prodotti Nike. Nel mentre però le azioni del brand guadagnavano il 33% in più del proprio valore, a dimostrazione che in questi tempi così politicamente polarizzati schierarsi non è per niente un male. Anzi.