di Sebastiano Pucciarelli (huffingtonpost.it, 4 marzo 2024)
Non pogavo da dieci anni: ci voleva la reunion berlinese dei Cccp per trascinarmi di nuovo nella danza selvaggia, a quarantacinque anni suonati. Scusate l’incipit personale, ma a volte la forza di un’esperienza culturale si misura anche dall’ebbrezza fisica che suscita. E che, per contrasto, ti sbatte in faccia la mancanza di intensità di tante, troppe, proposte musicali odierne.
Dopo quel live memorabile, rientrato a Torino (che a sforzarsi può sembrare ancora una piccola Berlino), mi sono chiuso una settimana al festival See You Sound a seguire film e documentari musicali… Forse per trattenere un po’ di quell’energia e di quella dimensione collettiva sempre più rare, in questi anni di ascolti e visioni sempre più individuali. E sabato pomeriggio ho “pogato da seduto” al cinema, in una sala gremita per la maratona-rarità di Julien Temple, regista londinese padre del cinema punk e del videoclip: uno che alla fine degli anni Settanta filmava la furia iconoclasta di Sex Pistols, Siouxsie e Clash, e a inizio Ottanta inventava i cortometraggi musicali che avrebbero fatto la fortuna della nascente Mtv. Quattro anni fa l’avevo intervistato alla vigilia del lockdown, e l’avevo trovato lucido e beffardo sullo stato della scena video-musicale contemporanea.
Stavolta Temple porta a Torino alcune perle dimenticate, tra cui l’ultimo incredibile concerto tenuto dai Pistols in patria, nella depressissima città industriale di Huddersfield: il pomeriggio suonarono per i bambini dei pompieri in sciopero, la sera per i giovani punk accorsi da mezza Inghilterra del Nord. Il tutto il 25 dicembre – in anni in cui, ricorda Temple, ai pub era persino vietato servire alcolici il giorno di Natale. In quel 1976-77 che segnò l’esplosione del punk, i quattro enfant terrible avevano già scandalizzato il Regno Unito invocando l’Anarchy in the UK, andando in tv a sputare il loro disgusto per la società dello spettacolo e facendosi arrestare sul Tamigi in un concerto anti-Giubileo Reale («God Save the Queen, the fascist regime» cantavano nel singolo più censurato della storia inglese – peccato non averne trovato traccia nel magnifico affresco di The Crown).
Risultato: la Emi rescinde il contratto discografico, (quasi) nessuna radio li trasmette, le date del tour britannico vengono cancellate una dopo l’altra… I Sex Pistols sono all’apice della fama, ma nessuno li vuole a casa sua. Quand’ecco che arriva una chiamata dal profondo Nord: siamo i pompieri dello Yorkshire, da settimane scioperiamo contro il governo, perché non venite a suonare per le nostre famiglie il 25 dicembre? La band più oltraggiosa d’Inghilterra e un Natale familiare in provincia, impossibile… E invece i quattro ventenni, che vengono tutti da famiglie della working class più o meno sgarrupate, rispondono OK – solo Sid Vicious sembra restio, teme di perdere la sua aura da cattivo ragazzo. D’altronde il tour inglese era saltato e il furbissimo manager Malcolm McLaren avrà intravisto una piccola, ennesima occasione di dare fastidio all’establishment.
Julian Temple, loro amico all’epoca ventenne, “prende in prestito notturno” le cineprese della scuola d’arte e li segue: ed ecco che nel 2013, e di nuovo oggi, ci mostra un’ora di assemblaggio dadaista in cui accosta quei due improbabili concerti alle interviste in primissimo piano ai tre Pistols superstiti (Vicious si è ucciso nel 1979) e agli spezzoni del Natale televisivo della Bbc, tra anchorman impomatati e commedie musicali perbene. Il risultato è questo Never Mind the Baubles – Christmas ’77 with The Sex Pistols, un Techetechetè punk che incontra Ken Loach, di certo uno dei più sorprendenti rockumentary che vi possa capitare a tiro – se masticate un po’ di Inglese potete vederlo qui, finché YouTube o Bbc non lo tirano giù (tra tanti documentari musicali auto-promozionali o gossipari propinati dalle piattaforme, il Tubo è ancora il mare più libero e pescoso, a saperlo navigare).
Le immagini dei bambini festosi, che ben presto cantano a memoria quelle canzoni ingiuriose e saltano scatenati intorno alla band, sono di quelle che non si dimenticano: a un certo punto afferrano grosse manciate di una torta e le tirano in faccia a un Johnny Rotten in estasi, che non smette di dimenarsi e li chiama a urlare il loro nome al microfono. Per un brevissimo istante persino il broncio di Sid Viciuos si scioglie in un sorriso beato. «Con lui dovevo stare attento quando filmavo, era in grado di sputare sull’obiettivo anche a metri di distanza» confessa Temple.
La sera arriveranno ragazzi da tutta la regione, molti dopo aver fatto chilometri a piedi, e la furia musicale dei quattro potrà esplodere in tutta la sua violenza per un’ultima volta (il gruppo si scioglierà tre settimane dopo, durante un disastroso tour americano). Ma in quel pomeriggio benefico, tra i festoni, le tartine e i doni offerti ai bimbi dagli improbabili Magi londinesi, c’è la strana magia di un Natale punk per emarginati, per figli di quella Britannia operaia già maltrattata dall’austerità dei Settanta e presto anche dalla Thatcher incombente. «Oggi sarebbe inconcepibile, nessuna famiglia esporrebbe i propri bambini a quella musica e a quei testi» riflette Temple, ma forse quella improbabile alleanza fu anche un dito medio all’ipocrisia borghese, che demonizzava il punk e dava salari da fame ai pompieri. E davanti a quel pubblico di pre-adolescenti qualche “fuck” Johnny Rotten se lo risparmiò.
Se nell’approccio punk c’è una lezione valida anche oggi, che ci arrocchiamo nelle opposte retoriche identitarie (ma sempre nel perimetro dei circuiti commerciali), quella lezione sta proprio nel vivere le contraddizioni in chiave comunitaria: risposte collettive a bisogni individuali, per sciogliere la rabbia del singolo in un urlo corale, contro lo status quo musicale e sociale. Vale per la breve fiammata dei Sex Pistols nell’Inghilterra cupa di fine anni Settanta, come per il fiume carsico dei Cccp che scorreva tra la Berlino divisa e l’Emilia paranoica del riflusso nei primi anni Ottanta (e ora riemerge con mostre, podcast e nuove performance live, sempre all’insegna delle contraddizioni insopportabili ma proprio per questo fertili, Scanzi incluso: «Quanta voglia di purezza in questi sguardi, quanta voglia di poter odiare qualcuno perché ti sta sui co****ni» rispondeva Ferretti a chi fischiava il giornalista con loro su quel palco berlinese, «e lui sta qua perché vi sta sui co****ni, perché non abbiamo mai voluto che tutti la pensassero come noi, perché portiamo il disordine e non l’ordine, non quello che volete voi, non sono come tu mi vuoi»).
Uno spirito che soffia in altre due belle scoperte di questo decimo See You Sound (spero presto visibili anche altrove), due doc musicali inglesi che in qualche modo riprendono il filo di quella storia politico-musicale: Free Party – A Folk History, sulla nascita dei rave a fine anni Ottanta, e Right Here, Right Now, sul free party di massa che Fatboy Slim organizzò in spiaggia a Brighton nel 2002. In entrambi i casi assistiamo al passaggio dalla musica suonata ai piatti dei dj, dalle canne e l’eroina alle nuove droghe sintetiche, dai concerti grezzi del pogo selvaggio agli spazi abbandonati illuminati dai laser. Ma resta l’ideale del fai-da-te, dell’alternativa accessibile in città e club sempre più cari ed esclusivi. Dell’utopia di unire politica e divertimento in un mondo sempre più votato all’ordine e al profitto.
Le carovane dei raver balleranno solo poche estati, sempre più criminalizzate dai governi conservatori (salvo riemergere qua e là in Europa nei decenni successivi, seguite da nuove e spropositate strette sull’ordine pubblico in un saldissimo asse Thatcher-Meloni) e il beach party a Brighton fu l’ultimo grande raduno gratuito del nuovo millennio – anche perché si sfiorò la tragedia: si attendevano 50mila persone e ne arrivarono 250mila, con conseguente collasso di trasporti e servizi. Ma oggi che non sembra esserci vita fuori dai circuiti commerciali, quello che anche questi due documentari trasferiscono bene è proprio la dimensione libera e collettiva della musica e della vita notturna.
Sulla spiaggia di Brighton, a ben vedere, quasi nessuno si fece male e chi c’era la ricorda come la serata più esaltante della sua vita, nonostante gli scenari apocalittici disegnati dai tabloid in quei giorni. Scusateci raver, se vi abbiamo demonizzato solo perché volete ballare a modo vostro; scusateci Sex Pistols, se non avevamo colto il tiro sociale dietro le vostre provocazioni; scusateci Cccp, se non avevamo capito la potenza teatrale delle vostre contraddizioni.