di Mario Lavia (linkiesta.it, 24 maggio 2022)
Noi che eravamo sul palco guardammo subito con timore Tonino Tatò, che era il segretario particolare, l’ombra di Enrico Berlinguer. Lui si voltò, sorridendo, fece con la mano come per dire “okay”, aveva capito la nostra ansia. Perché la scena era stata incredibile, inverosimile, assurda: Roberto Benigni, famoso per la sua comicità surreale, aveva preso in braccio il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano! Era il 16 giugno 1983, sulla magnifica terrazza del Pincio, a Roma. Il ricordo personale di quel pomeriggio è forse il modo meno retorico o scontato di celebrare il centenario della nascita di Enrico Berlinguer, nato il 25 maggio 1922. Tutti hanno visto la fotografia di quella “sollevazione” che forse per la prima umanizzò in modo così plateale il leader del Pci, o meglio desacralizzò la figura del capo comunista («Questo è un comunista autentico!», aveva urlato il comico toscano prendendolo in braccio).
Oggi è difficile da capire ma quello era ancora il tempo dei grandi leader, dei capi politici, tanto più nel mondo della sinistra, del Pci, dove il Segretario era la Guida, anche se criticata anche all’interno senza tanti problemi; e poi Enrico Berlinguer aveva quel tratto di “Capo” che la sua gente sentiva vicino e al tempo stesso distante come appunto un “Capo” deve essere. Ma chi avrebbe osato prendere in braccio Togliatti o Longo, o Nenni o De Gasperi? La cosa di Benigni riuscì perché non era minimamente preparata, nemmeno lui aveva pensato a quel gesto clamoroso. Riuscì anche perché il segretario del Pci stette al gioco e con grande divertimento («La cosa più sbagliata che dicono di me? Che sono triste, perché non è vero», disse a Giovanni Minoli). Quello di Benigni fu un colpo di genio che è restato nell’album della politica italiana come il grande “gesto laico” nella chiesa comunista.
Ma ecco come andò tutta la faccenda. In vista delle elezioni politiche, il Pci di Roma e noi della Fgci romana decidemmo di organizzare una manifestazione-concerto a Villa Borghese, al Pincio, location molte altre volte utilizzata (nel lontano 1975 lì si tenne una Festa della Fgci a cui prese parte Pier Paolo Pasolini, che tenne uno dei suoi ultimissimi discorsi pubblici perché morì tragicamente qualche mese dopo), e noi giovani puntammo – anche all’epoca era all’ordine del giorno – sul tema della pace e del disarmo. Era l’epoca della battaglia contro i missili a Comiso. Doveva essere una cosa grossa perché avrebbe parlato Berlinguer.
Grazie a Goffredo Bettini e Walter Veltroni (che erano già dirigenti del Pci, ma erano anche stati entrambi segretari della Fgci di Roma), si mise su un cartellone di tutto rispetto: Roberto Vecchioni, il Banco del Mutuo Soccorso, Nada, i Nomadi, Luca Barbarossa e appunto Roberto Benigni, tutti artisti che suonarono gratis o poco più, erano tutti elettori del Pci. Tra gli oratori parlò anche Natalia Ginzburg, che era candidata al Parlamento, e fece un breve ma denso discorso sui pericoli che correva il pianeta per effetto del riarmo nucleare. Qualcuno negli anni passati ha scritto che non c’era molta gente, ovviamente non è vero; all’epoca il Pci era in grado di portare molta gente in piazza: con Berlinguer poi, e a poche settimane dal voto! Il Pincio era strapieno.
La preparazione era stata meticolosissima. Tatò chiese a Bettini una traccia del discorso che Berlinguer avrebbe tenuto, e Bettini mi coinvolse, così che quel pomeriggio al Pincio sentii che qualche frase che avevo scritto io era rimasta nel testo pronunciato dal segretario del Pci. Nei giorni precedenti eravamo andati Bettini e io a Botteghe Oscure per discuterne con Tatò e tra l’altro ricordo che siccome avevo scritto del movimento per la pace come di “un soggetto politico”, Tatò mi sorrise dicendo: «Eh no, “soggetto politico” Berlinguer te lo cassa…»: era gergo ritenuto troppo “di sinistra”. A un certo punto telefonò Eugenio Scalfari: c’era stato un sondaggio su la Repubblica non positivo per il Pci (i primi sondaggi, era un’altra epoca); e Tatò, con quella sua bonomìa romanesca, gli disse: «Eugè, è inutile che giocate a poker, tanto vinciamo noi». Beh, a vent’anni sono episodi che ti colpiscono.
Insomma, arriviamo al fatidico giorno molto tesi. In effetti, di primo pomeriggio di gente non c’è n’era molta. Poi aumentò. Quelli del Banco furono molto bravi, come pure i Nomadi, che suonarono la sera dopo il comizio di Berlinguer. Nada cantò con la base registrata nel pomeriggio ed era carinissima, un po’ troppo punk per i comunisti. Dopo i musicisti e i vari interventi politici toccò a Benigni, che attaccò con i suoi discorsi al tempo stesso astratti e realisti, le battute contro la Dc e i socialisti, un po’ le solite cose. Tutti i dirigenti erano sul palco, Renato Nicolini, l’amato inventore dell’Estate Romana, era il “presentatore” della manifestazione. Nel frattempo era arrivato anche Berlinguer, con Tatò appunto. Io ero sulla sinistra, guardando il palco, non lontano da Veltroni (che credo si veda in qualche fotografia allargata, vicino alla batteria dei Nomadi).
Bene, Benigni va avanti, il pubblico si era scaldato con le sue battute. Comincia a elogiare alla sua maniera e con il suo accento fiorentino Berlinguer, che era lì vicino, dice qualcosa sul fatto che il segretario del Pci era esile – «oh, lo si può prendere in braccio» –, i due si guardano, si capiscono, forse l’attore gli fa come per dire “posso?”, è una frazione di secondo, poi fa un passo, lo solleva, il leader comunista gli si aggrappa al collo, scattano decine di flash, urlo della folla, Berlinguer ride di gusto, scende giù dalle braccia di Benigni e dice: «È andata bene, non sono caduto…». E attaccò il suo discorso. Benigni, sotto il palco, era raggiante. In un secondo erano cambiate molte cose. Il significato politico di quella nostra manifestazione non è passato alla storia, ma quell’immagine di Benigni con il Segretario in braccio cambiò per sempre la percezione che grandi masse avevano di Enrico Berlinguer, che entrava nel suo ultimo anno di vita. Ma questo noi quel giorno non potevamo saperlo.