Taylor Swift mette alle corde Apple, uno spot con Clooney vale milioni, un party con Sharon Stone costa oltre 100mila dollari. Nulla influenza mercati e opinione pubblica più della star giusta. E ognuna ha la sua quotazione nel listino
di Giovanni N. Ciullo («D», suppl. a «la Repubblica», 11 luglio 2015)
Ben prima che la celebrità fosse calcolata in Nobel, Pulitzer, Grammy e Oscar (la statuetta), fu un altro Oscar (Wilde) a darne una definizione da allora mai tramontata: «C’è una sola cosa peggiore di essere sulla bocca di tutti ed è di non essere sulla bocca di nessuno». Perché fama è popolarità. E popolarità è potere.Economico, sociale, in grado di influenzare l’opinione pubblica, orientare le strategie imprenditoriali e a volte persino le scelte politiche. Prendete un Gulliver dei tempi moderni, ovvero un leader mondiale come Apple – 180 miliardi di dollari di fatturato, quasi 100mila dipendenti – e fatelo sfidare da una (solo apparentemente) lillipuziana 25enne bionda come la popstar Taylor Swift. Risultato? La marcia indietro della casa di Cupertino che aveva deciso di lanciare, il 30 giugno, il suo servizio di digital streaming – Apple Music – sfidando i vari Spotify e consentendo agli utenti di scaricare senza alcun costo le canzoni per i primi tre mesi. Un bene per gli utenti, meno per gli autori delle hit. «Scioccante e scorretto. Noi non pretendiamo che i vostri iPhone siano gratuiti, non chiedeteci che lo sia la nostra musica», aveva sentenziato in un baleno Swift (che significa “agile o veloce” ed è, ironia della sorte, anche il nome di una piattaforma digitale di Apple). Ricevendo nel giro di una notte la risposta – con tanto di scuse e cambio di strategia, visto che le royalty sono ora puntualmente pagate – del vicepresidente e braccio destro di Tim Cook, Eddy Cue. Ma il “caso Swift” è solo l’ultimo di una lunga serie di fenomeni celeb-oriented, di strategie di marketing condizionate dalle star. Perché un famoso può davvero decretare il successo o l’insuccesso di un prodotto o un servizio. Chiedere a Cincinnati, nella sede della Totes Isotoner: anni a produrre ombrelli con medie soddisfazioni finché qualcuno trovò su Youtube la canzone di una giovane di Barbados, una certa Rihanna, e fece della sua Umbrella («ella, ella, eh, eh») il nuovo inno aziendale, colonna sonora di una crescita delle vendite a doppia cifra, con tanto di percentuale per la signorina barbadiana ovviamente. Per non parlare di binomi storici come Justin Timberlake e McDonald’s, Nicole Kidman e Chanel n° 5, David Beckham e H&M. «Nulla vende oggi come una celebrity», dice Julie Creswell, editorialista del New York Times. «Se i consumatori credono che un’attrice o un cantante usino un prodotto condividendo le scelte di un’azienda, faranno di tutto per comprarlo». I numeri non lasciano dubbi: per l’Harvard Business School l’endorsement di un “pop-potente” significa anche un +20% nelle vendite e uno spot pubblicitario con una celeb vale fino a +25% già lo stesso giorno dell’annuncio. «Come consumatori riceviamo oltre 3mila immagini al giorno, di queste ne memorizziamo al massimo 150 e appena 30 raggiungono la nostra coscienza», spiega la “formula magica” Marshal Cohen, capo-analista dell’NPD Group, fra i massimi esperti mondiali di consumi. «Ebbene: se posso associare un volto noto al mio messaggio, accelero in maniera esponenziale la possibilità di raggiungere la “coscienza” del consumatore». Questo il Nuovo Divismo lo sa bene, costruito com’è sempre più spesso con sapienti campagne di comunicazione emozionale. E non (o non solo) su imperdibili talenti. Un’industria che non conosce crisi e che in fatto di sponsorizzazioni “firmate” – che siano auto o profumi, marchi di caffè o mutande – vale oggi a livello mondiale la bellezza di 60 miliardi di dollari (un paio di leggi di stabilità per l’Italia di Renzi, per capirci). A questo vanno aggiunti i volumi d’affari dei core business delle star: i cachet per i film che per attori come Robert Downey o Leo DiCaprio significano anche 30 milioni di dollari a partecipazione o incassi per show/concerti che per cantanti come Lady Gaga o Madonna valgono cifre a tanti zeri (oltre 800 milioni lordi solo in 4 tour per la prima, altrettanti come patrimonio personale per la seconda). C’è, infine, la voce delle cosiddette “imprese personali”: le comparsate tivù, le presenze da special guest, le attività parallele in cui vendere il nome o il merchandising che ruota intorno alla celebrity e ai suoi successi. Alla “marca-persona”, quindi, secondo la definizione del pubblicitario francese Jacques Séguéla: «I divi possiedono tre qualità decisive per attirare su di sé il consenso del pubblico: convincono, seducono e durano nel tempo». Poi, ovvio, anche la celebrità ha la sua scala di valori. E una star non vale l’altra. Il più ambito dei listini è il DBI (Davie-Brown Index), stilato da The Marketing Arm con Repucom sulla base di 8 parametri – notorietà, fascino, fiducia, ispirazione, efficacia, capacità di suscitare approvazione, esercitare ascendente e dettare tendenze –, con più di 4.000 nomi di top influencer a livello mondiale. È di fatto l’indice indipendente che aziende e agenzie consultano (a pagamento) prima di decidere a chi affidare lo spot di uno yogurt con i fermenti lattici o un nuovo rasoio. Ai primi posti del DBI ecco Tom Hanks (grande affidabilità) e Kate Middleton (per ispirazione), Barack Obama (notorietà) e il duo Taylor Swift – Jennifer Lawrence (per capacità di fare tendenza), oltre ai “soliti stranoti”: George Clooney, Brad Pitt e Angelina Jolie. Dalle schede delle singole star si scopre che, in un DBI score da 1 a 100, Antonio Banderas che parla alla gallina Rosita del Mulino Bianco vale 77,78, mentre Charlize Theron (indimenticata protagonista di uno spot Martini) è a 74,83. «I consumatori vogliono un “pezzo” di qualcosa che non possono essere», dice Eli Portnoy, branding strategist. «Così vivono indirettamente attraverso i prodotti e i servizi a cui le celebrità li inducono a Iegarsi». Ma poi anche l’oro più luccicante può appannarsi. Il 2010 è stato per gli addetti ai lavori un punto di non ritorno. Prima Tiger Woods, che con lo scandalo dei tradimenti nei confronti della moglie bruciò vari miliardi degli sponsor (Accenture e Gatorade, su tutti) e la propria credibilità. Poi lo spot maledetto della Nike, per i Mondiali di calcio in Sudafrica: con 5 dei 6 campioni scelti (dal francese Henry all’italiano Cannavaro) eliminati clamorosamente al primo turno. Perché, rovescio della medaglia, se la celeb fallisce ci rimette chi l’ha scelta per rappresentarla. E infatti, sulla scia di casi come Kate Moss scaricata per problemi di droga o Kobe Briant per presunte molestie, ecco le clausole di salvataggio: rescissioni anticipate degli accordi, per contenere i danni. I social network, infine, hanno enfatizzato ancora di più il potere delle star. Il 95% degli utenti è convinto che le aziende debbano usarli al meglio se vogliono condizionare i loro consumi. Così una nuova figura si fa strada: la social media celebrity, attiva su Facebook, Instagram e Twitter. Quest’ultima offre a un brand quello che una celeb “normale” non dà: una vera interazione con una comunità di riferimento, una connessione diretta con la sua audience. Non solo per il business in senso stretto, ma anche per attività come beneficenza o politica. Le money machine, le definivano Darrell West e John Orman nel saggio Celebrity Politics, affrontando il fenomeno del charitainment (contrazione fra charity ed entertainment) e delle raccolte fondi per le campagne elettorali. Inventati da Kofi Annan, ex-segretario generale Onu, i celebrities humanitarians si occupano infatti un giorno di Darfur o Cambogia e l’altro di spot per bevande o vestiti. Magari appoggiando un candidato o l’altro. Un “potere” a 360 gradi, nulla da dire. «Tra qualche anno», sosteneva Portnoy, «i nostri discendenti ci guarderanno e diranno: Dio mio, quelli erano davvero i più creduloni che siano mai vissuti sulla Terra».