di Guia Soncini (linkiesta.it, 13 marzo 2023)
La prima volta era il settembre del 2001, e ancora non avevamo tutti un telefono con dentro la telecamera. Però nella scuola in cui George W. Bush stava leggendo le fiabe ai bambini c’era ovviamente una troupe, e quindi per tutta la vita poi il poverino è stato quello: il presidente inadeguato che fa la faccia da coglione che non capisce quando gli dicono dobbiamo andare, si è schiantato un aereo sul World Trade Center.
Non sapevamo che presto tutti saremmo stati W., perché i telefoni con la telecamera non li abbiamo – per usare l’espressione che accomuna Schlein e Meloni – visti arrivare. Una settimana dopo l’interruzione nella lettura di fiabe, il 18 settembre, la Bbc riferiva di questo nuovo giochino giapponese, mah, i telefoni con la telecamera, cosa ce ne dovremmo fare, e il pubblico aveva l’aria di chi non si fa fregare – vogliono solo farci pagare di più i telefoni – mica quella di chi si prepara a un cambiamento epocale. Da allora abbiamo avuto tante di quelle immagini di momenti cui normalmente non avremmo assistito – un fenomeno che i fessi chiamano «trasparenza» e quelli con un paio di neuroni «inferno» – che non ci fa certo impressione Nicola Porro.
Lo so, lo so: voialtri pensate che i protagonisti della polemicuzza del weekend – quella sul video di Giorgia Meloni e Matteo Salvini che cantano La canzone di Marinella – siano Salvini e la Meloni che, ohibò, osano cantare mentre, come dicono i frasifattisti, «il mare restituisce i corpi», e appropriarsi di De André, «che cantava gli ultimi» (che invidia per chi non s’imbarazza a usare certe espressioni, dev’essere riposantissimo non aver alcun gusto per le parole, alcun senso del ridicolo, alcun raccapriccio per i ricatti emotivi). E invece ciò su cui dovremmo concentrarci, se fossimo capaci di osservare la realtà con meno automatismi rispetto ai cani di Pavlov, è il ruolo di Nicola Porro. Quando mi hanno detto che il video l’aveva instagrammato lui, ho pensato: ah, vedi, la Schlein gli ha fatto un contratto di consulenza e lui ha subito messo a segno un punto, brava lei, bella intuizione.
Deve aver postato quel video come tentativo di demolizione della presentabilità di Meloni e Salvini, Porro, no? A meno che non abbia voluto invece dimostrarci contiguità ai famosi, proprio come quelli che vogliono l’autoscatto con la vedova al funerale del morto del giorno: guardate, io a quel compleanno c’ero, ho fatto persino il filmino. I dubbi sulle ragioni della diffusione li ho avuti finché non sono andata sull’Instagram di Porro, dove c’era il pezzo mancante. I piccoli polemisti dell’Internet – la categoria più incapace nelle polemiche e la più efficace nel mancare sempre il punto – avevano sì freneticamente diffuso il video invocando scandalo per l’aver osato Salvini festeggiare il proprio compleanno mentre-il-mare-restituisce-i-corpi, invece di mettere in pausa la propria vita come avremmo fatto noi, persone perbene; ma non avevano reso nota la didascalia.
La didascalia sulla pagina Instagram di Porro è di sei secondo lui esaustive parole: «A proposito di crisi di governo». Quindi Nicola Porro – giornalista cinquantatreenne, non militante sedicenne – ritiene che quel video servirà a zittire chi parli di disaccordi politici tra i due: squarciagolano insieme «e come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno come le rose», chi mai può pensare che il governo non sia saldo? Nel Paese in cui di fronte all’infame che sorride noialtre persone perbene vibriamo «Franti, tu uccidi tua madre», Porro non sa preconizzare che le immagini d’un compleanno spensierato serviranno ai social a trascorrere lietamente il sabato dicendo che schifo, che orrore, che disumanità, che insensibilità, il mare restituisce i corpi, De André cantava gli ultimi.
La domanda, ovviamente, non è solo quando Porro abbia smesso di capire il mondo, ma anche – soprattutto – quando abbiano smesso di capirlo Salvini, Meloni, tutti quelli che, in presenza di telefoni che li inquadrano, si comportano come se fossero nella cucina di casa Corleone a imparare come si fa il sugo potendo contare sull’omertà dei familiari. Tempo fa m’hanno raccontato d’una conduttrice televisiva che, quando in riunione c’è una certa collaboratrice del programma, non dice niente, essendo convinta che costei la registri per sputtanarla. Me l’hanno raccontato per dirmi che la conduttrice è paranoica, ma io penso che sia saggia. Non solo perché conosco la collaboratrice e la so capacissima di fare una roba del genere, ma perché se condividessi uno spazio lavorativo con qualcuno non direi una parola prima d’essermi accertata che i telefoni fossero stati lasciati fuori dalla stanza in cui ci troviamo.
E invece nessuno impara, tutti si comportano come se i telefoni non li riprendessero, i social non li diffondessero, e le loro serate di svago potessero restare riservate. Curva d’apprendimento piattissima, ma mica rispetto al Bush del 2001: rispetto allo stesso Salvini di un anno fa, quando andò con Berlusconi nella pizzeria di Briatore e ovviamente i presenti pubblicarono i video e ovviamente tutti accorsero a polemizzare, e all’epoca non era il-mare-restituisce-i-corpi ma non-ci-pensi-all’Ucraina, ma insomma sempre quelli sono i tic, e sempre egualmente fessi quelli che li alimentano.
L’unica possibilità che in questo scontro di automatismi sciatti, esibizionismi sconsiderati, frasifattismi, tentativi di posizionarsi, l’unica possibilità che in mezzo a questo spettacolo d’arte varia ci sia qualcuno che ancora capisce qualcosa è che Salvini e Meloni di quel video abbiano voluto la diffusione. Per parlare a quel pubblico che ritiene i morti siano un sacrificio necessario a metter fine alla gigantesca rottura di coglioni che sono le migrazioni (non aver del tutto smesso di capire il mondo significa anche sapere già che questa è la frase che verrà sintetizzata in «Soncini ha scritto che le migrazioni sono una gigantesca rottura di coglioni»: se oggigiorno non sei preparata alla non comprensione di testi e toni, alle distorsioni e alle decontestualizzazioni e alle polemiche pretestuose, è meglio tu ti esprima solo a mezzo «il mare restituisce i corpi» e «De André cantava gli ultimi»).
Non capire il mondo significa rifiutarsi di credere che quel pubblico esista, che esistano priorità diverse. Sabato Francesca Mannocchi ha scritto un tweet in cui interpellava il sindaco di Roma: è normale che nel metrò la voce che indica le fermate abbia appena detto «attenti agli zingari»?, chiedeva. Si sono precipitati – Gualtieri, e l’azienda dei trasporti romana – a rassicurarla, a indignarsi, ad annunciare provvedimenti disciplinari. Tra le risposte e i retweet, il prevedibile affollamento di cittadini che notano che è la prima volta che i trasporti romani mostrano efficienza in qualcosa, e quel qualcosa non è la puntualità dei mezzi, o la restituzione del maltolto a qualche passeggero derubato. Hanno torto i romani intervenuti, a pensare che la stigmatizzazione dei borseggi a mezzo profilazione razziale non sia la cosa più grave che l’Atac abbia mai fatto? O ha torto Gualtieri, a non prevedere che la pronta indignazione per la lesa correttezza politica verrà accolta con abbondanti pernacchie?
Forse, banalmente, ognuno capisce solo il proprio pezzettino di pubblico. Gli uni parlano a quell’elettorato che ritiene accettabile che gli autobus vadano a fuoco, purché si viva in una società sufficientemente civile da non controllare subito se il portafoglio è ancora al suo posto non appena s’intravede qualcuno che gli altri (non noi, va da sé) ritengono sia appartenente a un’etnia di ladri. Gli altri parlano a quell’elettorato che ritiene accettabile che i forestieri poveri ogni tanto muoiano a decine, purché non m’interrompano mentre sono seduto al ristorante chiedendomi la carità, purché a me arrivino solo come testi di canzonette, il consumo più trasversale e meno ideologico che c’è.
I due gruppi non hanno niente in comune, tranne i telefoni con la telecamera ormai bene primario e, appunto, le canzonette: il luogo in cui il sentimentalismo viene relegato da coloro che hanno fischi pavloviani diversi da «il mare restituisce i corpi». Ogni tanto arrivano le elezioni, e ognuno conta i suoi. Di solito vincono quelli che non fanno un plissé per «zingari»; ma, anche quando vincono i buoni e giusti, non mi pare che per i disperati del mondo nelle loro legislature vada assai meglio che nelle canzoni di De André.