L’Onu si affida a Shakira e Beyoncé
di Federico Rampini («la Repubblica», 5 ottobre 2015)
È uno degli annunci conclusivi dell’assemblea generale Onu. Dal Palazzo di Vetro il comunicato dice che «Shakira e i presidenti di Tanzania, Indonesia e Cile entrano nella nuova commissione internazionale per finanziare l’accesso alla scuola, perché 124 milioni di bambini esclusi dall’istruzione possano studiare, a cominciare dai piccoli profughi».Shakira messa alla pari con i presidenti di grandi nazioni, in un comunicato dell’Onu? Per chi non lo sapesse, la 38enne Shakira Isabel Mebarak Ripoll è una cantante, ballerina e modella colombiana, vincitrice di Grammy Awards. Con 125 milioni di dischi venduti è la terza pop star del mondo ispanico dietro Julio Iglesias e Gloria Estefan. Per la sua attività filantropica con la fondazione Pies Descalzos (piedi nudi), è stata invitata alla Clinton Global Initiative, l’evento parallelo che i coniugi Clinton organizzano ogni anno qui a New York in concomitanza con l’assemblea Onu. Barack Obama la ricevette nell’Ufficio Ovale nel febbraio 2010 per discutere i problemi dello sviluppo infantile nei Paesi poveri. Benvenuti nell’era della politica estera appaltata alle celebrity. Non c’è evento geostrategico dove non faccia capolino lo star system: Hollywood o il mondo della canzone, dello sport, dell’arte. I politici di tutti i continenti, inclusi certi autocrati del Terzo mondo, hanno imparato a gestire la comunicazione in condominio con le pop star. Perfino nella dittatura più isolata del mondo, la Corea del Nord, il tiranno rosso Kim Jong Un si fece vedere con l’ex campione di basket americano Dennis Rodman. Ormai la Pop Diplomacy è studiata nelle università; è teorizzata apertamente dal Dipartimento di Stato americano, sul cui sito un’intera finestra è dedicata al tema “Come le celebrità possono diventare diplomatici”, con istruzioni dettagliate sulle procedure di Washington per promuovere al rango di inviati speciali gli sportivi e i musicisti, gli attori e gli chef. Quest’ultima è una categoria più recente ma in forte ascesa: Michelle Obama quando visitò l’Expo di Milano volle nella sua delegazione gli chef Mario Batali e Alice Waters. La storia della Pop Power ha i suoi antenati, precursori e pionieri, teorici e detrattori. Un convegno di studi della University of Southern California ne ha fissato l’origine più lontana nel 1954, quando l’Unicef (agenzia Onu per l’infanzia) nomina l’attore comico americano Danny Kaye come “ambasciatore speciale nel mondo”. È l’inizio di una lunga serie, con altre star di Hollywood come Audrey Hepburn, spesso con la carica di “goodwill ambassador” cioè ambasciatori di buona volontà, non remunerati. Ma il fenomeno era ancora limitato nelle sue dimensioni e nella sua influenza. La svolta decisiva matura con l’impegno politico dei cantanti pop. Una tappa è il maxi-concerto per il Bangladesh organizzato il primo agosto 1971 al Madison Square Garden di New York dall’ex Beatle George Harrison con il musicista indiano Ravi Shankar, Bob Dylan, Eric Clapton. Accorrono in 40.000, la raccolta di fondi raggiunge 250.000 dollari versati all’Unicef. Il mondo della musica si convince di “poter fare la differenza”, di avere un impatto reale su tragedie umanitarie come la carestia e l’esodo di profughi dopo la guerra tra Bangladesh e Pakistan. Nasce un’industria dei concerti di beneficienza, con il seguito di Live Aid organizzato da Bob Geldof nel 1985 (Londra e Philadelphia) per la carestia in Etiopia. Queste mobilitazioni di artisti danno un’idea a Bono degli U2, oggi considerato dalla rivista National Journal come «la celebrity più efficace del nostro tempo nella politica internazionale». Bono fa il salto di qualità: non si accontenta più della semplice raccolta di fondi, diventa un attivista politico a tempo pieno, visita governi, partecipa a summit mondiali. La sua crociata personale si chiama “debt relief”, il perdono di debiti sovrani ai Paesi più poveri. Frequenta il World Economic Forum di Davos, viene ricevuto da capi di Stato ai margini dei summit istituzionali come G7 e G20. È il fondatore della Pop Diplomacy attuale. L’elenco degli emuli oggi si fa quasi sterminato. George Clooney è noto per il suo impegno in favore del Darfur, inclusa la sua apparizione nel documentario sul genocidio Darfur Now. La causa del Darfur ha coinvolto anche l’attrice Mia Farrow, ambasciatrice Unicef, e suo figlio Ronan Farrow che è anchorman di Msnbc. L’attrice Emma Watson è Goodwill Ambassador delle Nazioni Unite per la parità dei sessi. Richard Gere è stato arruolato dall’Onu per missioni in Palestina. In parallelo è un attivista in favore del Dalai Lama e dei diritti umani in Tibet. Un anno fa intervistai il pianista cinese Lang Lang al Palazzo di Vetro: come Shakira, anche lui si occupa per l’Onu dell’accesso all’istruzione. Angelina Jolie è inviata speciale dell’agenzia Onu per i rifugiati dal 2012. Una specialista di Pop Diplomacy, Nina Matijasevic dell’istituto internazionale Ifimes, le ha dedicato un saggio intitolato Afrodite in difesa dei diritti umani. Secondo la studiosa, Angelina Jolie è un modello per capire il fenomeno delle celebrità impegnate nei giochi della geopolitica: «L’opinione pubblica ha fiducia in queste figure più che nei politici di mestiere. Queste personalità dotate di influenza, che attirano un’attenzione mondiale, sono in una posizione unica per incidere sulla percezione dei problemi e sulle soluzioni da adottare». Non tutti sono convinti dei benefici della Pop Diplomacy. Andrew Cooper della World Politics Review segnala il rischio che gli ambasciatori di buona volontà si prendano anche troppo sul serio, si montino la testa, non sappiano interpretare il proprio ruolo. È accaduto ad una ex-Spice Girl, Geri Halliwell, che fu inviata dall’Onu per una missione nelle Filippine nell’ambito di una campagna per la contraccezione e la prevenzione dell’Aids, poi silurata velocemente quando i dirigenti Onu si convinsero che era “fuori di testa”. Altri usano il proprio ruolo para-diplomatico come un trampolino di lancio verso la carriera politica. È il caso dell’ex calciatore George Weah, tornato nel proprio Paese d’origine (Liberia) come ambasciatore Unicef, e poi candidatosi all’elezione presidenziale. La stessa parabola seguita dal campione di cricket Imran Khan in Pakistan. Infine un rischio speculare è quello denunciato dal simposio della University of Southern California: «I politici di mestiere hanno imparato la lezione della Pop Diplomacy. Adesso sono loro a usare le star internazionali per lustrare la propria immagine presso l’opinione pubblica».