di Antonio Pellegrino (linkiesta.it, 8 ottobre 2024)
Giornalismo libero contro media mainstream. Su questo presunto conflitto si regge una retorica che da anni infesta il dibattito pubblico, avallando le attività di blogger indipendenti, reporter amatoriali e altre figure autoproclamatesi «scomode», il cui scopo comune è quello di diffondere propaganda dietro la maschera dell’informazione partita dal basso.
La settimana scorsa uno di questi ha querelato il comitato per la campagna elettorale di Kamala Harris e Tim Walz, reo di aver sostenuto una sua vicinanza ideologica al Project 2025 (il documento del think tank trumpiano in cui viene presentato l’eventuale riassetto dello Stato in caso di vittoria repubblicana) e, di conseguenza, un suo appoggio alle mire dittatoriali dell’ala oltranzista Maga. La querela multimilionaria è partita non solo perché si accusa un dichiarato difensore della democrazia di esserne un nemico, ma soprattutto per l’idea di voler accostare il malcapitato a uno schieramento politico ben preciso quando, stando alle sue parole, si tratterebbe in realtà di un giornalista slegato da qualsiasi logica di parte.
Il soggetto in questione è Tim Pool e la sua storia riassume perfettamente quella di un filone che è partito da Internet e oggi si è ritagliato uno spazio non trascurabile nei media tradizionali. È il 2011 quando a New York scoppiano le proteste del movimento Occupy Wall Street, l’organizzazione che raccoglie i manifestanti della sinistra anticapitalista americana che, grazie al connubio tra le dimostrazioni di piazza e una massiccia presenza on line – è in questo periodo che piattaforme come Reddit e 4Chan iniziano a diventare strumenti della lotta politica –, ottengono un seguito internazionale. Tra questi c’è Pool, che, con le sue dirette durante i cortei, si può considerare il pioniere del live stream (format oggi ampiamente diffuso), inaugurando un nuovo modo di fare informazione che unisce cronaca e militanza.
Nonostante il riconoscimento della stampa classica – i suoi video vengono trasmessi da emittenti come Nbc – Pool sottolinea sempre la differenza tra lui e i reporter professionisti, come quando, intervistato dal programma radiofonico On the Media, dirà di non considerarsi un giornalista ma «un attivista al cento per cento». Dichiarazioni da tenere a mente. Finita l’epopea di Occupy Wall Street, Pool continua a lavorare da freelance, affermandosi come volto nuovo della sinistra anti-establishment: inizia una collaborazione con Vice per la quale seguirà le proteste antigovernative a Istanbul e, successivamente, documenterà in streaming le manifestazioni ucraine di Euromaidan.
Almeno all’epoca, Pool sembra sostenere la piazza di Kyjiv – sottolineandone il carattere anti-autoritario e popolare – ma è in questo periodo che le sue prese di posizione iniziano a virare su altri lidi. Il blogger dà voce a presunti analisti che spiegano come l’espansione della Nato sia l’origine di tutti i mali, riconducendo i principali fatti dell’attualità alle conseguenze dell’imperialismo americano che in qualche modo distorce la narrazione ufficiale degli eventi. È a suo modo un percorso coerente: gli eventi globali vengono interpretati secondo le logiche della sinistra radicale che non può prescindere da un antiamericanismo talmente anacronistico da scadere nel complottismo più becero.
Ed è l’inclinazione al complotto che porta Tim Pool a un cambio di casacca ancora oggi negato dal diretto interessato. L’esempio più lampante di questo progressivo passaggio alla destra Maga è il revisionismo sul suo esordio nel mondo dell’informazione: Tim Pool sostiene di non essere mai stato un attivista ma un giornalista vero e proprio, ribaltando così quella narrazione che aveva costruito all’epoca di Occupy Wall Street, un movimento che nel 2021 ha definito «corrotto» e con il quale non si sarebbe mai associato.
Abbandonata l’identità del freelance di Vice, Pool trova la sua ragione d’essere in un mondo che proprio in quegli anni, a cavallo tra il 2016 e il 2020, vede la sua massima espansione, quello della podcastsphere. Con questo termine indichiamo il filone di quei podcast che da YouTube a Twitch sono spuntati nella galassia on line sostenendo di fare un’informazione alternativa e indipendente rispetto ai media mainstream. E non è un caso che a portare Tim Pool nel pantheon di questo mondo sia stata la sua partecipazione, nel 2019, a un episodio di The Joe Rogan Experience, forse il più grande rappresentante di questa ondata.
Nel corso della puntata, Pool prende le difese dell’allora noto opinionista ultraconservatore Milos Yiannopoulos, secondo lui vittima della crociata contro la libertà d’espressione condotta dal sistema. Queste uscite pubbliche gli permettono di trovare nuovi compagni di viaggio, come il conduttore di InfoWars Alex Jones – oggi condannato a un risarcimento miliardario nei confronti dei genitori delle vittime di Sandy Hook, strage da lui definita «una farsa orchestrata dai democratici» – e un altro personaggio non allineabile al sistema, l’allora presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, che lo inviterà quale ospite d’onore a un raduno di opinionisti Alt-Right patrocinato dalla Casa Bianca.
In questa sede Tim Pool discuterà delle mail del comitato nazionale democratico diffuse on line da una fonte anonima, uno scoop che in realtà è stato creato ad arte dal collettivo russo Fancy Bear e pubblicato on line da WikiLeaks. È solo l’inizio di una lunga amicizia tra l’ex freelance e la Russia, per conto della quale diffonderà sui suoi canali alcune delle principali fake news che hanno infestato il dibattito attorno alle presidenziali americane del 2020, dalla manomissione dei risultati elettorali ai vari complotti per incastrare Trump. Ma guai a sostenere una sua vicinanza ideologica all’ex presidente o al Cremlino.
Tim Pool non è più l’attivista di sinistra dei primi anni Dieci, ma non si definisce nemmeno un trumpiano: si dichiara «centrista», una formula che negli Stati Uniti è spesso abusata dai podcaster che rivendicano la propria indipendenza dai due blocchi. Il centrista Pool si dice ostile alla tendenza mediatica di spostare il pubblico su posizioni ultra-progressiste e denuncia l’imperialismo militare dell’establishment democratico: posizioni comuni a personaggi come Jordan Peterson, Tulsi Gabbard e tutte quelle figure che in quegli anni hanno fiancheggiato la narrazione della destra Maga.
Questa ambiguità ideologica regge fino al mese scorso, quando l’inchiesta contro Tenet Media rivela che la società dietro numerosi opinionisti e vlogger anti-sistema ha ricevuto più di dieci milioni di dollari dalla Federazione Russa. La stessa inchiesta rivela che a Tim Pool sono stati inviati oltre quattrocentomila dollari per i video pubblicati nell’ultimo periodo. Del resto Pool si è rivelato più lealista del re e oggi l’ex reporter di Euromaidan è tra i più feroci avversari dell’Ucraina – «Paese nemico di noi statunitensi» –, contro la quale opera nel campo della disinformazione nella maniera più becera e faziosa che si possa immaginare (ha sostenuto, immediatamente dopo il fallito attentato a Trump, che lo shooter potesse essere «un agente ucraino»).
La sua storia è emblematica perché rivela la malafede di un ambiente che ha posto le sue radici ovunque, anche e soprattutto in Italia: presunti giornalisti indipendenti che con le loro attività favoriscono la macchina putiniana della disinformazione, a volte come utili idioti e altre, come nel caso di Pool, sotto compenso. Ma riportare i fatti, denunciando connivenze e bugie dei suoi protagonisti, non basta a frenare questo mondo che grazie all’inganno della neutralità è riuscito a fare proseliti. La podcastsphere ha subito un duro colpo alla sua credibilità ed è per questo che diventa scontato aspettarsi una sua offensiva nell’ultimo mese che ci separa dalle elezioni americane. Tim Pool è solo uno dei tanti.