(ilpost.it, 30 ottobre 2022)
È almeno dal 2016 che si discute del ruolo delle pubblicità politiche sui social network, e su Facebook in modo particolare. All’epoca le piattaforme digitali erano state accusate, a torto o a ragione, di aver contribuito all’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel 2016 permettendo la pubblicazione di inserzioni elettorali che contenevano informazioni false o fuorvianti e di non essere state sufficientemente trasparenti sul tipo di inserzioni che venivano indirizzate ai loro utenti.
Da allora, quasi tutte le grandi aziende tecnologiche hanno cambiato le proprie regole in materia per evitare questo genere di accusa. Alcune (tra cui TikTok, Twitter e Twitch) hanno deciso semplicemente di bandire tutte le inserzioni pubblicitarie a tema politico, anche se il sistema d’identificazione degli spot vietati spesso non funziona a dovere. Altre (come Google, a cui appartiene anche YouTube) hanno limitato moltissimo la possibilità d’indirizzare le pubblicità a specifici segmenti di utenti (il cosiddetto targeting). Altre ancora, come Reddit, Snapchat e Instagram, non sono mai state considerate particolarmente interessanti come spazi dove investire grosse somme di denaro per raggiungere possibili elettori. Così, negli Stati Uniti, in vista delle elezioni di metà mandato che si terranno martedì 8 novembre e in cui si eleggeranno 435 membri della Camera dei Deputati e circa un terzo dei membri del Senato, i consulenti incaricati di gestire la comunicazione politica on line dei candidati si trovano a poter investire quasi soltanto su Facebook, che è l’unica piattaforma che offre ancora un ampio numero di opzioni.
Ma Facebook è anche molto meno rilevante rispetto al passato. In un recente reportage pubblicato su Bloomberg, la giornalista Anna Edgerton ha raccolto diverse lamentele che riguardano soprattutto il fatto che oggi investire su Facebook significa ottenere molti meno risultati che in passato, sia perché tantissimi elettori più giovani non hanno un profilo sulla piattaforma, sia perché anche Meta limita almeno parzialmente la possibilità di pubblicità particolarmente mirate. Da una parte, è una questione di politica aziendale. Negli ultimi anni ci sono stati vari scandali e fughe di notizie che hanno reso pubblici i fallimenti della dirigenza di Facebook nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza, soprattutto in periodo di elezioni. L’azienda ha quindi fatto qualche cambiamento: per esempio, ha vietato la pubblicazione di nuove inserzioni nei giorni immediatamente precedenti le elezioni e ha rimosso l’opzione d’individuare un segmento di utenza a cui rivolgere le inserzioni in base a parole chiave che ne rivelassero troppo chiaramente l’orientamento politico, come “salario minimo” o “Malcom X”.
Secondo Erica Monteith, vicepresidente di un’agenzia di comunicazione che lavora con tutti i presidenti Democratici dagli anni Novanta, quest’ultimo cambiamento in particolare ha intaccato molto l’utilità di Facebook per le campagne politiche. A ciò si aggiunge il fatto che le nuove regole sulla privacy di Apple, che rendono più difficile il tracciamento degli utenti mentre utilizzano le applicazioni, comportano anche un targeting molto meno preciso degli annunci su iPhone e altri dispositivi Apple. «Un decennio fa i comitati elettorali amavano Facebook per la sua capacità di trasformare i clic in donazioni ed elenchi di email di probabili elettori», scrive Edgerton. «La forza di Facebook è sempre stata quella di convincere gli utenti ad agire, per esempio donando denaro o inserendo il proprio indirizzo email. La piattaforma non si presta tanto ai video di 30 secondi che puntano a far cambiare quello che le persone pensano riguardo a un candidato. I consulenti politici dicono che, una volta, un solo dollaro speso su Facebook fruttava ai comitati elettorali fino a 1,30 dollari in donazioni, mentre oggi sperano soltanto di andare in pari col bilancio».
Questo non vuol dire che i politici abbiano smesso d’investire su Facebook, soprattutto nei Paesi, come l’Italia, dove i fondi disponibili per le campagne elettorali sono molto inferiori e i comitati elettorali non sono soliti sperimentare molto con le nuove piattaforme. «In Italia rispetto agli Stati Uniti ci sono ordini di grandezza completamente diversi per quanto riguarda il budget e la grandezza degli staff, quindi non si possono fare tanti test o campagne personalizzate. E abbiamo una cultura della privacy completamente diversa», spiega l’esperto di comunicazione politica Dino Amenduni. «Negli Stati Uniti è molto più semplice fare profilazioni e segmentazioni partendo dai dati personali, si può identificare la propria audience a partire dagli indirizzi email dati volontariamente da chi partecipa alle primarie o dona ai partiti, e quindi è più facile fare campagne mirate a quello specifico pubblico. Da noi non esiste quel genere di cultura. Chiaramente puoi segmentare il pubblico in base agli interessi, alle pagine seguite su Facebook o alla fascia socialdemografica di appartenenza, ma sarà tutto molto meno preciso».
In Italia la fascia demografica dei più giovani ha abbandonato Facebook in favore di Instagram o TikTok, «ma il numero di utenti attivi rispetto al numero di elettori da noi è ancora molto conveniente, visto che si parla di 37 milioni di iscritti, più o meno» spiega Amenduni. Facebook, insomma, permette ancora di ottenere ottimi risultati. «Se voglio raggiungere segmenti di popolazione divisi in base agli interessi o all’affiliazione politica, o comunque non m’interessa raggiungere specificatamente i più giovani, Facebook continua ad essere uno strumento imprescindibile, anche perché rispetto agli Stati Uniti ci sono molte meno limitazioni sulle inserzioni», aggiunge Amenduni. In vista delle ultime elezioni politiche, tra il 22 agosto e il 20 settembre, Fratelli d’Italia ha speso quasi 140mila euro in inserzioni pubblicitarie su Facebook, di cui 20mila soltanto per promuovere la pagina personale di Giorgia Meloni. Matteo Salvini, che con oltre 5 milioni di follower è ancora il politico italiano più seguito sulla piattaforma, ha speso 63.520 euro per promuovere i propri post, mentre Silvio Berlusconi ne ha investiti meno di 15mila.
A dimostrazione del fatto che il quantitativo di soldi spesi nelle inserzioni on line non corrisponde necessariamente a buoni risultati elettorali, il terzo partito che ha speso di più in assoluto su Facebook nello stesso periodo di tempo è stato Coraggio Italia, piccolo partito del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro che faceva parte della coalizione di centrodestra e che ha investito oltre 59mila euro su Facebook, di cui 51mila indirizzati ai soli utenti veneti. Coraggio Italia è riuscito a far eleggere un solo deputato e un solo senatore. Nel frattempo, negli Stati Uniti, gli inserzionisti politici statunitensi si stanno mostrando sempre più interessati a inserire annunci video su piattaforme ancora molto deregolamentate: i servizi di streaming. Non è ancora chiaro se Netflix e Disney+, che stanno per inserire le inserzioni pubblicitarie sulle proprie piattaforme, permetteranno di mandare in onda spot politici, ma negli Stati Uniti sono già molti i servizi di streaming minori che lo fanno, tra cui Vice, Lifetime, Samsung TV Plus e LG Channels.
Natasha Singer sul New York Times racconta un esempio dal Michigan, dove Darrin Camilleri, un candidato Democratico al Senato statale che nel 2016 è stato eletto con un margine di poche centinaia di voti, sta investendo molto sulle inserzioni sui servizi di streaming. Nelle scorse settimane, per esempio, i suoi consulenti hanno individuato 64mila abitanti dell’area di Detroit che potrebbero potenzialmente votare per lui in quanto moderati e a favore dei diritti riproduttivi, e hanno mostrato loro dei video a favore del diritto all’aborto. «I consulenti politici sostengono che la capacità di adattare gli annunci video in streaming a piccole fasce di spettatori potrebbe essere cruciale per candidati come il signor Camilleri che devono affrontare delle sfide testa a testa con gli avversari nelle elezioni di metà mandato» ha spiegato Singer. «Il targeting è diventato così preciso che i vicini di casa che guardano la stessa serie sullo stesso servizio di streaming possono ora visualizzare annunci politici diversi, in base ai dati sulle loro tendenze di voto, età, sesso o etnia, reddito stimato, abitudini di acquisto o opinioni sul controllo delle armi», scrive Singer.
Secondo il New York Times, la tendenza è tale che si prevede che gli annunci politici sui servizi di streaming genereranno 1,44 miliardi di dollari: circa il 15% dei 9,7 miliardi di dollari previsti per la spesa pubblicitaria per il ciclo elettorale del 2022. Questo vorrebbe dire che, per la prima volta, si spenderebbe per le pubblicità sui servizi di streaming quanto per quelle su Facebook e Google. La pratica sta già attirando le preoccupazioni degli esperti di privacy, sia perché è legata ad una raccolta molto invasiva dei dati degli utenti, sia perché è ancora deregolamentata e quindi si presta alle stesse tecniche di manipolazione degli elettori che erano state criticate quando accadevano su Facebook. Se gli annunci politici trasmessi in televisione negli Stati Uniti devono indicare chi li ha sponsorizzati e adeguarsi alle norme federali sulla trasparenza, lo stesso non vale infatti per i servizi di streaming, che nemmeno sono obbligati a mantenere archivi pubblici sugli annunci politici mostrati ai loro utenti, come succede invece oggi su Facebook e Google. «Questa pratica occupa un’area grigia che non sta ricevendo la stessa attenzione della questione degli annunci pubblicati sui social media», ha detto Becca Ricks, ricercatrice della Mozilla Foundation che si occupa del tema. «In questo modo si crea un campo di gioco sleale in cui individuare con precisione i messaggi da comunicare in base a un pubblico ristretto, il tutto senza un livello minimo di trasparenza».